La decisione dell’Associazione italiana degli editori di spostare la sede del Salone del Libro dal centro fieristico del Lingotto di Torino all’area di Rho-Fiere a Milano si presta a essere interpretata da differenti punti di vista. Il più semplice consiste nell’associare questa scelta alla volontà dei grandi editori (cioè il kombinat Mondadori-Rizzoli) di far corrispondere la localizzazione del Salone alla capitale effettiva dell’industria editoriale italiana. Naturalmente, il trasferimento da Torino a Milano è stato favorito dallo stato di crisi della Fondazione Salone del Libro, logorata dalle vicende giudiziarie e dallo squilibrio nella struttura dei costi di una manifestazione troppo – e inutilmente – onerosa. E poi, certo, è evidente che la nuova amministrazione milanese ha tutto l’interesse a valorizzare il polo fieristico di Rho, cui il sindaco Beppe Sala ha associato il suo nome. Come stupirsi, dunque, se l’assessorato alla Cultura del Comune di Milano ha fatto quanto era in suo potere per radicarvi il Salone? Quanto al governo, esso – al di là delle dichiarazioni dei ministri dei Beni culturali e dell’Istruzione – non può che dare il suo appoggio alla giunta milanese, l’unica delle grandi città a essere in linea con Matteo Renzi.
Se quindi si allineano l’uno dietro l’altro questi fattori, è chiaro che la partita tra Torino e Milano nell’assegnazione del Salone fosse scontata. Il presidente degli editori, Federico Motta, non ha nascosto che l’orientamento era da tempo favorevole al capoluogo lombardo e non si attendeva che la condizione fosse propizia per darvi corso. L’occasione è stata fornita dal cambio dell’amministrazione municipale di Torino, che ha fatto cadere quel velo di retorica che aveva offuscato la situazione reale della città negli ultimi anni.
A lungo, il presunto alone di successo del Salone del Libro aveva fatto da suggello alla trasformazione dell’immagine della città che, di colpo, tuttavia si è rivelata dissonante con la sua realtà effettiva, molto più precaria di quanto pretendesse il racconto codificato dalle sue élite urbane. Il Salone serviva ad accreditare la nuova identità di Torino, fondata sulla produzione dei servizi culturali, sulla qualità delle manifestazioni artistiche e, in generale, sulla leva d’attrazione del turismo, a compensazione del ridimensionamento dell’apparato industriale su cui lo sviluppo metropolitano si era retto in passato.
In un certo senso, il Salone del Libro era davvero uno specchio della condizione di Torino, ma soprattutto delle sue contraddizioni. Anzitutto la manifestazione aveva costi esorbitanti, che non erano certo ripagati dai suoi risultati (per anni e anni il numero dei visitatori era stato gonfiato ad arte). I costi di gestione del Lingotto erano improbabili, ma soltanto nell’ultimo mese vi si è messo mano. L’autorità giudiziaria ha scoperchiato un reticolo di connivenze clientelari, incistatosi fino a formare un groviglio difficile da districare, benevolmente tollerato da Comune e Regione, che l’hanno perpetuato fin quando non è stato più possibile astenersi dall’intervenire.
Si ha un bel dire, oggi, che il Salone torinese garantiva un livello di qualità che sarà messo a repentaglio dalla futura iniziativa milanese, contraddistinta da un carattere commerciale, al pari delle altre iniziative fieristiche che si tengono in Lombardia (dal mobile alla moda, per intendersi). Chi abbia frequentato il Salone nel corso delle varie edizioni, si sarà accorto che i suoi elementi pop tendevano inevitabilmente a prendere il sopravvento e che i contenuti di innovazione erano pressoché assenti. Difficile sostenere, in un periodo di crisi che ha visto drammaticamente contrarsi il mercato del libro, che il Salone abbia davvero agito in controtendenza.
Ora la sindaca Chiara Appendino e, più sommessamente, il presidente della Regione Sergio Chiamparino dicono di non aver intenzione di arrendersi a Milano e che a Torino si continuerà a lavorare per il Salone, magari con gli editori che in questa partita non si sono schierati con Mondadori-Rizzoli. Messa così, sarebbe un ripiegamento: non si può indulgere all’illusione che si possa fare un Salone dell’editoria di cultura… Perché non esplorare piuttosto gli enormi spazi dell’editoria digitale, specie dopo che Amazon ha annunciato di voler impiantare a Torino un suo centro di ricerca tecnologica?
Andare in questa direzione rappresenterebbe un’alternativa e una possibilità di rilancio. Di esse Torino ha più che mai bisogno perché col risultato delle elezioni amministrative ha mostrato di non riporre più la propria fiducia nel racconto urbano diffuso per oltre un decennio dalle sue amministrazioni. È una città che si impoverisce, che arretra non tanto nelle classifiche ma nei suoi assetti economici portanti, che teme la diffusa precarietà che l’attraversa. E che dunque ha bisogno non di messaggi rassicuranti che stridono con la percezione dei cittadini, bensì di una valutazione realistica delle proprie risorse e delle proprie opportunità per varare azioni che consolidino il suo sistema economico e sociale e che ne contrastino la caduta ulteriore. Anche il progetto per un nuovo Salone, magari non solo del Libro, potrebbe costituire una spinta in questa direzione.
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