Il Fattore K. Nessuna sorpresa giunge dalle elezioni argentine della scorsa domenica. Come da copione, Cristina Fernández de Kirchner, con il 53,96% dei voti, si è nettamente imposta nella corsa per la conquista della Casa Rosada. Un risultato geograficamente omogeneo, spalmato su tutto il territorio nazionale: da Jujuy alla Terra del Fuoco, passando per Santiago del Estero, la provincia di Buenos Aires, Chubut, Neuquén e chi più ne ha più ne metta, Cristina ha conquistato la maggioranza in tutte le province, con l’eccezione di quella di San Luis. Un successo personale accompagnato da quello della sua coalizione (con in testa il suo partito, il Frente para la Victoria) che ha ottenuto la maggioranza assoluta in entrambi i rami del Parlamento e da quello di molti dei “Candidati K” che sono diventati governatori nelle elezioni provinciali, iniziate nello scorso marzo con la provincia di Catamarca e terminate domenica scorsa. Alle opposizioni frammentate non è rimasto altro che accontentarsi delle briciole. La Presidenta, infatti, ha scavato un solco profondo tra sé e gli altri candidati: il socialista Binner, secondo più suffragato, ha raccolto il 16,87% dei consensi e il radicale Alfonsín ne ha collezionato l’11,15%; tutti gli altri si sono fermati ben al di sotto della soglia del 10%.
Sin qui i dati di una legittimazione popolare senza paragoni, i cui caratteri principali erano già emersi con chiarezza qualche mese fa. I sondaggi sembravano non lasciare scampo: la vittoria di Cristina era pressoché assicurata. Sono state poi le primarie del 14 agosto scorso a definirne i contorni e a consacrarne definitivamente i risultati. La nuova legislazione elettorale, infatti, aveva imposto ai partiti politici di prendere parte a primarie aperte, obbligatorie e simultanee in tutto il Paese per la selezione dei candidati. A questo appuntamento tutti i principali movimenti si sono presentati con un unico candidato Presidente trasformandolo, dunque, in un vero e proprio test pre-elettorale. Aperte le urne, non v’è stato scampo a interpretazioni peregrine: Cristina aveva una maggioranza tale da poter vincere al primo turno. Di lì in poi ha preso forma una campagna elettorale noiosa, priva di contenuti, consunta. Un confronto vuoto perché stanco e stanco perché vuoto. D’altronde, c’era d’aspettarselo.
L’avvio della prima presidenza di Cristina era stato segnato da una serie di violenti scontri politici. Il “clima da campagna elettorale”, che sino all’anno scorso ha condizionato il dibattito politico argentino, sembra aver logorato, alla prova dei fatti, le opposizioni piuttosto che la compagine di governo. Di contro, negli ultimi mesi Cristina ha sotterrato l’ascia di guerra mutando decisamente la natura del suo discorso politico e utilizzando toni concilianti proprio con quei segmenti sociali con cui si era scontrata in precedenza. La Presidenta, inoltre, non ha abilmente affrontato questioni che avrebbero potuto incrinare il difficile equilibrio su cui si fondava la sua maggioranza. Un gruppo, questo, fin troppo eterogeneo al cui interno trovano spazio dal sindacalista Hugo Moyano al vicepresidente in pectore, Amado Buodou, e che ha goduto del sostegno sempre meno velato dell’ex Presidente Carlos Menem. E sembra essere destinato ad allargarsi sempre più arrivando a comprendere componenti rimaste sino ad ora ai margini del Frente, simbolo più che movimento politico. Simbolo di una nuova stabilità politica che ha preso il potere di fronte allo sgretolarsi dei due storici partiti politici, il partito radicale e quello giustizialista, ma che in quest’ultimo trova le proprie radici. Un gigante dai piedi d’argilla perché, attraversato da troppe tensioni interne, riesce a rimanere in vita grazie all’equilibrismo dei propri dirigenti. È questa, di fatto, la vera sfida che Cristina deve affrontare: fare sintesi tra le differenti e spesso antitetiche componenti. Più che della stabilità politica, il Frente, quindi, diventa l’emblema dell’instabilità dell’Argentina contemporanea. Un’instabilità governata sino a oggi con una vera e propria egemonia K, familista e dai tratti “autoritari” ma consacrata dal responso delle urne.
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