Futbol y politica. La scorsa settimana, mangiando un buon asado, un amico mi ha detto: “la politica, in Argentina, è come il calcio: è una questione di fede”. A ben vedere, il mio amico non aveva mica torto. Ancor più perché è proprio dal calcio che è cominciata la litania del “para todas y todos”, su cui si basa buona parte del discorso della presidenta, Cristina Fernández de Kirchner. La politica argentina, oggi come in passato, sembra riflettere i tratti del calcio argentino. E non solo: i riverberi di questo legame travalicano i confini nazionali, come ha dimostrato il polverone sollevato dal caso della maglietta mostrata da Germán Denis dopo aver segnato un gol all’Inter lo scorso 11 novembre.
La politica in Argentina è, prima di tutto, manichea, come del resto molte confessioni religiose, tra cui il calcio. Un tifoso del River plate avrà sempre qualcosa da ridire nei riguardi di Maradona, emblema del Boca juniors degli ultimi anni Settanta. Della storia del Pibe de oro si sottolineeranno, infatti, gli aspetti peggiori: la sua dipendenza dalle droghe, il suo carattere burrascoso, le cattive amicizie di cui si circonda. Allo stesso modo, chi sostiene la Presidenza attacca a testa bassa non solo i rappresentanti politici dell’opposizione ma anche le voci critiche della società civile: il sindaco di Buenos Aires, Mauricio Macri, la famiglia Noble, proprietaria del principale gruppo di telecomunicazioni Tn (che detiene, tra l’altro, il quotidiano argentino più venduto, “Clarín”; i canali televisivi più seguiti, come Canal 13), il giornalista Jorge Lanata. Costoro, al momento, sono bersaglio delle velenose parole della presidenta e dei suoi sostenitori. Dal canto loro, i gruppi oppositori, accecati dalle stesse dinamiche manichee, sferrano contro verso Cristina attacchi violentissimi, anche a sfondo personale: la dubbia provenienza delle sue ricchezze, il suo voler scimmiottare Eva Perón, l’abbigliamento fin troppo chic rispetto al messaggio egalitario proposto.
Un aspetto condiviso dalla maggioranza e dall’opposizione è l’estrema propensione a sfaldarsi e a dividersi (soprattutto in tempi lontani dalle elezioni). Cristina ha incrinato la sua storica alleanza con le sigle sindacali e con il suo leader indiscusso, Hugo Moyano. Dalle ceneri di quell’alleanza è nato un nuovo movimento, La campora, che tenta di fare muro a difesa della stessa presidenta. Al contempo, gli endemici contrasti con il vice della Kirchner, tanto quello attuale quanto il precedente, mostrano la fragilità dell’alleanza elettorale K. L’opposizione non è da meno. Il consenso di cui godeva il principale sfidante di Cristina alle elezioni presidenziali dello scorso anno, Hermes Binner, si è sciolto come neve al sole. Per non parlare del partito radicale, tristemente noto per essere capace di fare opposizione a se stesso. Allo stesso modo, il tifo calcistico non unisce il popolo argentino. Qualche settimana fa, al termine della partita Lanús-Boca (partita persa da quest’ultimo), il gruppo ultras del Boca, la doce, ha scatenato la propria violenza non già verso i tifosi del Lanús e neppure verso la città o lo stadio che ospitavano l’incontro, quanto piuttosto contro il rappresentante di un’altra fazione della sua stessa tifoseria. Per non parlare, poi, del caso della fondazione del club Arsenal de Sarandí, nato con lo scopo di riunire le due storiche formazioni della città di Avellaneda (Independiente e Racing club), da cui ha preso i propri colori sociali: rossa dalla prima e azzurro dalla seconda. Arsenal non ha conseguito il proprio obiettivo ed è diventata, piuttosto, la terza squadra della città. Uno più uno fa tre, insomma.
Oggi, in Argentina, il calcio, come la politica, è in crisi. La qualità del campionato di calcio, che quest’anno è intitolato a Eva Perón in occasione del sessantennale della sua morte, si è abbassata notevolmente. Le società di calcio non riescono più a trattenere i loro campioni migliori e la nazionale è popolata da giocatori che militano in squadre straniere e non sempre da titolari (si veda il caso di Federico Fernández, panchinaro del Napoli). Ciò accade proprio mentre il campionato brasiliano, storico rivale di quello argentino, trattiene alcuni tra i suoi giocatori più rappresentativi (da Neymar a Paulinho, passando per Casemiro e Damião) e riesce anche ad attrarne altri di calibro internazionale (la scorsa estate, ad esempio, è approdato al Botafogo Clarence Seedorf). Se, insomma, la politica argentina piange, il calcio argentino non ride. La relazione di rappresentanza politica, però, non si può “rescindere” tanto rapidamente quanto un contratto calcistico, né la classe dirigente argentina si può piazzare sul mercato come un qualsiasi fenomeno del calcio. Forse perché, a differenza dei vari Messi, Tévez o Agüero, i politici non rappresentano la parte migliore di questo Paese.
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