Viktor Orbán: un uomo solo al comando in Ungheria. Le elezioni svoltesi in Ungheria l’11 e il 25 aprile con la schiacciante vittoria della formazione di centro-destra Fidesz (giovani democratici), segnano un terremoto politico e la fine di un lungo equilibrio di potere fondato sul bipolarismo destra-sinistra, prefigurando nuovi scenari per il paese. L’esecutivo monocolore socialista guidato nell’ultimo anno da Gordon Bajnai ha scontato il giudizio negativo dell’elettorato sulle politiche economiche e sociali del suo predecessore, Ferenc Gyurcsány. La punizione di una classe dirigente ritenuta inetta e assai corrotta si è tradotta in un appoggio massiccio, sebbene non incondizionato, al principale partito di opposizione. Come ha affermato il politologo Péter Tölgyessy, molti elettori hanno scelto Orbán non per convinzione ideologica, ma perché rappresentava l’unica scelta razionale ai fini della governabilità. A fronte di un’affluenza del 64,2%, l’opposizione moderata ha ottenuto il 52,7% dei consensi, che consegnano al nuovo governo monocolore una maggioranza parlamentare superiore ai due terzi. Fidesz ha vinto in tutto il paese, con percentuali che variano dal 65% delle zone rurali occidentali al 45% di Budapest, dove ha conquistato per la prima volta dal 1990 quasi tutti i collegi uninominali. I socialisti, impopolari sin dalla crisi politico-istituzionale del 2006 e ulteriormente indeboliti dalla recessione che attanaglia l’Ungheria da 3 anni, hanno ottenuto il 19,3% e 59 deputati, un risultato negativo (benché ampiamente previsto) che costringe la leadership a un profondo ripensamento dell’azione politica e dell’immagine pubblica del partito. Sui 59 deputati sopravvissuti alla sconfitta appena 5 sono infatti neoparlamentari, segno di un’assoluta incapacità di rinnovamento interno. I partiti-simbolo della vita politica dei primi anni novanta, il forum democratico (MDF) e l’alleanza dei liberi democratici (SZDSZ) sono addirittura scomparsi dal nuovo parlamento, travolti il primo da scandali interni, il secondo dall’alleanza con i socialisti.
Il partito di estrema destra Jobbik, giustamente ritenuto la vera (e senz’altro preoccupante) novità delle elezioni, ha ottenuto un risultato significativo conquistando il 16,7% dei voti (pari a oltre 700 mila elettori) e 47 deputati, diventando il secondo partito davanti agli stessi socialisti in 8 province su 19, ovvero in quasi tutta la metà orientale del paese. Jobbik ha svolto una campagna elettorale aggressiva ed efficace, al tempo stesso “territoriale” e tecnologica, puntando sul tema della sicurezza declinato in chiave “etnica” (ovvero contro la minoranza rom, accusata di atti di delinquenza diffusa), e sul generico rifiuto del sistema politico degli ultimi vent’anni. Jobbik possiede un elettorato assai giovane (l’età media è di 38 anni, contro i 46 degli elettori moderati e i 55 di quelli socialisti), economicamente attivo, mediamente istruito e residente in villaggi o piccoli-medi centri urbani. I media ungheresi e internazionali hanno però stentato a cogliere un punto essenziale: il risultato di Jobbik, da inserire peraltro in un contesto europeo di rafforzamento delle forze anti-sistema portatrici di messaggi radicali, nazionalisti, xenofobi o antisemiti, è stato nettamente inferiore alle aspettative minime della vigilia, soprattutto in termini di collegi elettorali conquistati (nessuno) e di seggi complessivi (meno di cinquanta). Sino a due settimane dal voto, gli istituti di ricerca parlavano di un consenso in stabile ascesa, superiore al 20% e tendente addirittura al 25%. Jobbik ha perso improvvisamente molti potenziali consensi quando è emerso che il programma del partito prevedeva, in contraddizione alla tradizionale dottrina della destra ungherese, il rilancio del rapporto con la Russia e l’Asia. Jobbik, partito fortemente euroscettico con pesanti accenti anti-globalizzazione, considera infatti il governo putiniano un modello di state-building da esportare nell’Europa centrale.
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