Il rivoluzionario nero. Nell’aprile 2010 la formazione di centro-destra Fidesz guidata da Viktor Orbán (storico leader del partito e già primo ministro nel 1998-2002) si è aggiudicata le elezioni politiche ungheresi con il 53% dei voti popolari e la maggioranza qualificata dei seggi parlamentari (68%). L’elettorato ha punito duramente il centro-sinistra al governo da 8 anni. Molti osservatori, all’interno come all’esterno del paese, hanno paventato il rischio che un governo sprovvisto di freni politici possa subire una deriva autoritaria e la profezia a detta di molti si starebbe avverando grazie a provvedimenti come la legge sulla regolamentazione dei media e la limitazione del potere di veto imposta alla Corte costituzionale in materia economica e fiscale.
Ma cosa sta avvenendo davvero in Ungheria: un’involuzione autoritaria o, piuttosto, una rivoluzione economica e costituzionale in senso conservatore? Chi scrive propende per la seconda ipotesi. Il governo Orbán ha cercato di affrontare il problema del sottosviluppo economico e del disagio sociale imponendo al parlamento e alla pubblica amministrazione un ritmo di lavoro forsennato. In un solo anno il parlamento ha discusso e votato una nuova Costituzione ed è stato approntato un sistema fiscale basato su un’aliquota unica del 16%, pienamente operativo dal 2013. A partire dall’autunno entreranno in vigore riforme nei settori sanitario e pensionistico, necessarie per contenere la spesa pubblica, mentre un gigantesco programma di lavori pubblici – alla cui partecipazione sarà legata l’erogazione dei sussidi sociali – tenterà di aumentare un tasso di occupazione tra i bassi di tutta Europa e di offrire una prospettiva di integrazione sociale alla numerosa comunità rom. Provvedimenti come la tassa sui profitti delle imprese attive in Ungheria nei settori finanziario, telefonico e alimentare, o lo smantellamento del sistema pensionistico che dal 1997, caso unico in Europa, si basava sulla compresenza di tre pilastri (previdenza pubblica, fondo pensione privato obbligatorio e previdenza integrativa facoltativa), hanno urtato la sensibilità e gli interessi di potenti investitori europei, soprattutto francesi e tedeschi. Solo la nazionalizzazione dei fondi privati obbligatori ha fruttato alle casse dello Stato oltre 3000 miliardi di fiorini (12 miliardi di euro), oltre la metà dei quali verranno spesi quest’anno per ridurre il debito pubblico.
Resta per ora ambigua la reazione dell’opinione pubblica di fronte all’iper-attivismo di un esecutivo che sembra non conoscere la parola compromesso. I sondaggi d’opinione continuano a misurare Fidesz sopra il 50% delle preferenze (anche se oltre un terzo degli elettori non sa per chi votare), con i socialisti e l’estrema destra intorno al 15% e l’opposizione liberale vicina al 10%. Molti elettori apprezzano il decisionismo del governo e giudicano inevitabile la mancanza di eleganza istituzionale nella situazione attuale di emergenza economica. In altri ceti emerge una certa delusione, motivata non dal deficit democratico ma dalla riforma fiscale, che ha privilegiato i redditi più elevati, e soprattutto per l’inarrestabile indebolimento del fiorino rispetto al franco svizzero, valuta nella quale un ungherese su dieci si è indebitato negli ultimi anni.
Nonostante il governo faccia il possibile, sfruttando la maggioranza dei due terzi, per ampliare il proprio spazio di manovra, è assai improbabile che Orbán conduca il paese, come sostengono i suoi avversari, verso la “democrazia sovrana” russa di impianto putiniano. La rivoluzione conservatrice che spaventa l’Europa potrebbe durare appena quattro anni (ammesso che l’opposizione di centro-sinistra si riorganizzi) e Orbán non è il male assoluto, ma uno smaliziato uomo di potere, populista nella retorica ma dotato come pochi di una chiara visione dell’Europa e dei suoi problemi politici, sociali e demografici. Sotto la sua guida il governo “euroscettico” di Budapest ha svolto nel semestre di presidenza un lavoro politicamente e tecnicamente impeccabile. In un momento di crisi generale dell’Europa e dell’idea europea, Orbán e la sua “rivoluzione costituzionale” rappresentano quindi una sfida ma anche uno stimolo a ragionare sulle proprie diversità interne, come dimostra la tassa sui profitti delle banche ungheresi, inizialmente bollata come un provvedimento populista e oggi sollecitata a livello europeo.
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