Un monito dalle piazze romene. C’è molto di più di quello che appare nella violenta protesta popolare che ha sconvolto la Romania in questo inizio di febbraio. La scelta del governo guidato dal socialdemocratico Sorin Grindeanu di varare un decreto che depenalizza il reato di corruzione per illeciti che prevedono pene inferiori ai cinque anni ha innescato una bomba pronta da tempo. A evitare che esplodesse non è servito ritirare la legge, né sono bastate le dimissioni del ministro della Giustizia, Florin Iordache, per sedare le proteste. L’esecutivo ha giustificato la norma come un mezzo per svuotare le sovraffollate carceri romene, ma in molti vi hanno visto invece la volontà di “salvare” da un processo in corso per corruzione il segretario del partito di maggioranza, Liviu Dragnea. Il gabinetto Grindeanu si è insediato circa un mese fa, dopo le elezioni parlamentari di dicembre. Ha esordito con un provvedimento scellerato, è vero, ma se la reazione in sé poteva essere prevedibile, le sue dimensioni (si parla di 500.000 persone), la durata (oltre una settimana) e l’estensione geografica (oltre alla capitale sono stati coinvolti altri centri urbani, come Cluj e Galaţi) sono indice di un malessere che covava da tempo.
La disaffezione nei confronti della classe politica è un processo di lungo periodo nel Paese. Negli ultimi anni le due maggiori organizzazioni politiche, il partito socialdemocratico e il partito nazional liberale, sono state coinvolte in numerose vicende giudiziarie legate a casi di corruzione o abuso d’ufficio. Di reati di questo genere sono stati accusati, tra gli altri, gli ultimi due presidenti del Consiglio socialdemocratici, Adrian Năstase e Victor Ponta, nonché l’ex presidente della Repubblica, il liberale Traian Băsescu. Non stupisce, quindi, che la partecipazione al voto sia scesa ininterrottamente dalle prime elezioni post comuniste del 1990 (86%) ad oggi (39% circa alle ultime parlamentari dello scorso dicembre). Il sistema di malversazione va però oltre la classe dirigente: la Romania si trova al 57° posto nella graduatoria dell’indice di trasparenza, al quart’ultimo posto tra gli Stati dell’Unione europea. La seguono solo Italia, Grecia e Bulgaria.
La scarsissima fiducia nei confronti del mondo politico è alimentata anche dalla sua instabilità. Negli ultimi cinque anni si sono succeduti cinque governi senza contare gli incarichi ad interim. A parte i due esecutivi tecnici, che avevano il ruolo di traghettare verso le scadenze elettorali, gli altri sono caduti a seguito di manifestazioni di piazza. Quello del liberale Emil Boc si è dimesso nel febbraio 2012 dopo le proteste contro le misure di austerità adottate per rispondere alle richieste dell’Unione europea; quello di Victor Ponta è stato travolto nel novembre 2015 dal malcontento popolare dopo il drammatico incendio al club Colectiv, in cui morirono 64 ragazzi, e quello in carica attualmente rischia di seguire lo stesso destino. La tragedia del Colectiv rappresenta un precedente con molte affinità con la situazione attuale. Nei giorni successivi alla disgrazia la popolazione aveva lanciato un segnale ben preciso alla classe politica, accusandola di aver privilegiato i propri interessi personalistici o di partito a discapito delle questioni più importanti relative al rispetto delle norme e alle condizioni di vita degli abitanti. Già allora la protesta era dilagata in tutto il Paese, già allora si erano sentiti slogan contro tutto il sistema politico, già allora i social network erano stati il veicolo delle accuse, già allora il presidente della Repubblica Iohannis si era fatto interprete della popolazione, invitando i politici a non ignorare l’indignazione dei cittadini. Anche in questi giorni il capo dello Stato si è esplicitamente schierato con i manifestanti, scendendo in piazza e parlando del decreto come del “più grave passo indietro da quando la Romania è entrata nell’Unione europea”. Come nel 2015 con Ponta, Iohannis ha duramente accusato Grindeanu di curare solo gli interessi del suo partito. Neanche il conflitto tra le due cariche più importanti del Paese è una novità: il predecessore di Iohannis, Băsescu, era stato posto sotto procedura di impeachment per due volte da parte dei governi socialdemocratici, riuscendo a superare, con qualche difficoltà, il referendum popolare sulla sua rimozione dalla carica.
Tutto già visto, quindi? In verità, quello che sta succedendo in questi giorni lascia qualche preoccupazione in più rispetto al passato. In primo luogo, è il segnale che la situazione interna al Paese sta degenerando e la popolazione si riconosce sempre meno in quelli che dovrebbero essere i suoi rappresentanti. In secondo luogo, alla luce del mutato contesto internazionale, i fatti romeni rischiano di tramutarsi da questione meramente interna nell’ennesima manifestazione di crisi delle democrazie rappresentative. Il ruolo di garante fin qui svolto dal presidente della Repubblica, nonché l’assenza di movimenti o personalità “forti” che si autoproclamino portavoce della rivolta, hanno tenuto lontano questo spettro, per il momento. Tuttavia una popolazione che, nonostante la ripresa economica degli ultimi anni, ha un Pil pro capite corrispondente a circa un quarto della media europea, al di sopra solo di quello bulgaro, e che ha perso ormai due generazioni a causa dell’emigrazione ha un potenziale protestatario gigantesco e molto pericoloso. Sebbene il suo peso politico ed economico sia limitato, la Romania è stata finora uno dei Paesi meno euroscettici e più fedeli all’alleanza con l’Occidente. Se l’antirussismo radicato da secoli non mette in pericolo la collocazione internazionale del Paese, il degenerare della situazione interna creerebbe un problema serio a un’Unione europea non certo in perfetta salute. Le critiche di Junker al governo Grindeanu vanno lette anche in questo senso, ma in futuro servirà qualcosa di più.
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