Il dilagare del rischio populismo. Le reazioni delle istituzioni europee ai risultati delle elezioni politiche italiane sono contraddistinte a) dalla preoccupazione per la valenza europea del voto, che chiama direttamente in causa, nel bene e nel male, l’architettura finanziaria e le politiche economiche dell’Ue; b) dalla paura per il rischio contagio del populismo, reso endemico dalla crisi economica e soprattutto dalla sua gestione politica a livello europeo, sintomatico di una separazione sempre più evidente tra élites e opinioni pubbliche refrattarie ad accettare le ricette anti-crisi propinate da governi nazionali che agiscono sotto “vincoli” europei finora declinati soltanto in termini di austerità e rigore.
Quanto al primo aspetto, dopo la scontata “fiducia” nella democrazia italiana e nelle sue istituzioni espressa da José Manuel Barroso, presidente della Commissione europea, a emergere è la preoccupazione che l’instabilità politica dell’Italia metta sotto pressione l’intera zona euro, poiché, come ha dichiarato Martin Schulz, presidente del Parlamento europeo, “quello che accade in Italia ha conseguenze in tutta la Ue”. I timori sono aggravati dall’incertezza circa l’effettiva volontà del futuro governo di proseguire il percorso di riforme intrapreso dall’esecutivo guidato da Mario Monti. Su questo punto, quello che risuona a Bruxelles è un coro unanime: Herman Van Rompuy, presidente del Consiglio europeo, dichiara che “non c’è alternativa alle riforme”, mentre Olli Rehn, commissario agli Affari economici, afferma che “è importante che il Paese prosegua con le riforme per garantire una crescita sostenibile e la creazione di occupazione”. È evidente che queste dichiarazioni assumono il significato di una convinta difesa delle politiche di rigore adottate dal governo Monti, ma anche, nel caso di Rehn, di un importante spostamento di accento sulla necessità di passare alla fase due, ossia di assumere provvedimenti e varare riforme che rimettano in moto la crescita e quindi l’occupazione; esattamente ciò che a Bruxelles ci si attendeva da un governo di coalizione tra il centro-sinistra e la Lista Monti: l’ipotesi più gradita e sponsorizzata dalle cancellerie europee, ma bocciata dalle urne. È altrettanto evidente che nelle reazioni europee traspare la preoccupazione che se cede l’anello Italia crolla l’intera architettura finanziaria della zona euro, e dunque che il destino di Roma è legato a doppio filo a quello europeo; ma ancor più gioca la “cattiva coscienza” di essere rimasti a metà del guado – complici anche le prossime scadenze elettorali in Germania –, ossia di non aver ancora realizzato quell’unione finanziaria, di bilancio e politica che sola potrebbe fare argine al rischio del contagio italiano, ma che comporterebbe altresì un’ulteriore cessione di sovranità all’Ue, auspicata da Berlino ma rifiutata da Parigi. Certo, sono stati compiuti importanti passi in avanti con i meccanismi salva Stati – una prima embrionale forma di mutualizzazione dei debiti sovrani –, ma questi meccanismi vengono attivati solo dietro la sottoscrizione da parte dei governi nazionali di gravosi memorandum di impegni – le famose “condizionalità” –, che devono essere accettati da Bce, Fmi e Commissione. Appare assai improbabile, però, che simili aiuti possano essere richiesti da forze politiche che si rifiutano di riconoscere qualsiasi rilevanza all’andamento dello spread (Berlusconi) o che dichiarano di voler indire un referendum sull’euro e rinegoziare il debito (Grillo); ma ancor più improbabile è che, se anche richiesti, possano essere accordati a governi che non offrono sufficienti garanzie di voler adempiere ai compiti sottoscritti.
Quanto al secondo aspetto, Barroso ha messo apertamente in guardia dal “rischio populismo”, uno spettro che si aggira in tutta Europa. Ma anche in questo caso ciò che preoccupa maggiormente è la retorica antieuropea di Berlusconi e Grillo, rappresentanti di due forme assai diverse di populismo – che nel caso del Movimento 5 stelle si traduce anche in una critica radicale all’intera classe politica italiana e in una domanda “dal basso” di democrazia partecipativa e di trasparenza –, ma accomunati dalla volontà di sottrarsi ai diktat finanziari di Bruxelles e al rigore imposto da Angela Merkel. Ciò che più inquieta le istituzioni comunitarie è il fatto che il populismo grillino non è riconducibile ai noti ingredienti della xenofobia e della lotta anti-immigrazione, tipici delle sue varianti europee di destra, ma pone al centro del proprio programma il disagio sociale nei confronti delle politiche di austerità messe in atto da molti governi europei. Anche su questo punto il risentimento e la rabbia che emergono dal movimento di Grillo interrogano direttamente la “cattiva coscienza” europea, la consapevolezza ormai diffusa che l’Ue ha fallito nella gestione politica della crisi, tutta giocata sulla riduzione del debito e assai poco sull’espansione della domanda e sulla protezione sociale. Questa è la sfida vera cui si trova di fronte l’Europa: dare risposte alle legittime domande di cui i populismi sono i megafoni e cui gli stessi populisti non sono forse in grado di rispondere. La sfida è cambiare rotta: tradurre in azione politica, in politiche sociali per la crescita, il legittimo risentimento di chi da anni subisce misure di austerità ormai politicamente e socialmente insostenibili. Se la sfida non verrà raccolta, il rischio concreto è che il prossimo Parlamento di Strasburgo si ritrovi pieno di deputati populisti e antieuropei, il che segnerebbe davvero la fine del progetto europeo.
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