In ordine sparso, a spasso per l'Ue. Il panico finanziario che, a seguito della crisi di Atene, ha scosso le fondamenta dell’Ue, facendo temere un contagio di tutta l’area meridionale del continente è un segnale particolarmente inquietante per il progetto europeo. La crisi greca, d’altronde, non può essere catalogata come un fenomeno puramente nazionale. La teoria economica suggerisce che una crisi finanziaria si possa velocemente espandere a diverse economie tra loro interdipendenti. I meccanismi di trasmissione sono innumerevoli a cominciare dalle relazioni commerciali: la svalutazione post-crisi di una valuta può intaccare la bilancia commerciale sia di paesi partner sia di competitori. Gli investitori giocano a loro volta un ruolo decisivo: a seguito di perdite in conto capitale sofferte durante la crisi, molti agenti possono avere la necessità di liquidare assets in altri paesi potenzialmente a rischio mentre le banche, a corto di credito, potrebbero ritrovarsi nelle condizioni di non rinnovare i prestiti. Questo determina una situazione di panico ed irrazionalità nei mercati finanziari, dominati dagli “animal spirits”. Terrorizzati da possibili perdite (o ingolositi da possibili guadagni speculativi), gli investitori cominciano a vendere massicciamente assets detenuti in altri paesi in qualche maniera connessi all’economia in crisi. La speculazione può scattare in qualsiasi momento. Se nel caso greco le responsabilità vanno cercate nella finanza allegra di quel governo, altrettanto non si può dire per la Spagna. La debolezza delle economie europee è causata anzitutto da conti macroeconomici e bilanci pubblici disastrati dalla crisi finanziaria. Crisi che ha imposto agli stati pesanti interventi per salvare le banche mentre la recessione mondiale ha fatto impennare i rapporti deficit/Pil e debito/Pil. Il paradosso di questa crisi è che i mercati (e le rating agencies) stanno punendo stati la cui colpa non è stata una politica economica “allegra” e improntata alla spesa pubblica, ma che presentano conti sballati a causa del fallimento degli stessi mercati finanziari. In buona sostanza, gli speculatori stanno punendo i governi che li hanno salvati non più tardi di due anni fa!
Questa situazione paradossale è stata aggravata dall’indecifrabile assetto istituzionale europeo. Di fronte alla crisi si è risposto in ordine sparso, con piani di salvataggio nazionali e non coordinati da Bruxelles. Il risultato è che alcuni governi hanno rapporti deficit/Pil insostenibili mentre altri sembrano essere in una situazione migliore. Ma il default degli stati più deboli rischia di significare il crollo dell’Europa intera. Gli elettori tedeschi sono preoccupati di non dover pagare i conti altrui, ma un fallimento della Grecia vorrebbe dire un forte salasso per le banche molto esposte in terra ellenica. Ed ancor peggio sarebbe la situazione in caso di fallimento spagnolo. Una moneta senza stato poteva aver senso in periodi di crescita economica, ma è insostenibile durante periodi recessivi. Naturalmente, mentre la politica monetaria è stata delegata senza troppi problemi alla BCE, una comune politica fiscale richiederebbe un vero governo europeo. Ora si vogliono imporre nuove ed ancora più rigide regole à la Maastricht con meccanismi di controllo più severi di quelli attuali – come se non esistessero già parametri e sanzioni – il problema è semmai farli rispettare. Ma è una soluzione di corto respiro e in direzione di un rafforzamento delle burocrazie e di una eccessiva restrizione delle libertà democratiche dei paesi europei, soprattutto di quelli più deboli. Le sofferenze dell’Europa e della sua moneta dipendono sì dalla contingenza finanziaria, ma rivelano un deficit istituzionale strutturale. Una moneta senza stato è un paradosso che i mercati stanno punendo. Il piano di salvataggio è una prima risposta della politica ma ancora solo parziale. Il futuro dell’Europa è verso una maggiore integrazione, o la fine sarà inevitabile.
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