Classi speciali per comunità marginali. Inizia l’anno scolastico in Slovacchia ed è subito oggetto d’attenzione da parte degli organi di informazione europei che denunciano la discriminazione nei confronti degli alunni di etnia rom, separati in classi speciali dai loro coetanei slovacchi. Non si tratta del primo episodio. Già nel 2010, Amnesty international aveva lanciato una campagna in difesa dei rom slovacchi, con pressioni dirette sul governo di Bratislava perché finissero fenomeni del genere. Quest’anno il cuore della vicenda è Levoča (14.600 abitanti di cui l’11% di etnia rom), cittadina dal 2009 dichiarata patrimonio dell’umanità dall’Unesco, che si trova nella regione di Prešov, in una zona centro-orientale del Paese.
In Slovacchia, i rom sono 180.000 e costituiscono l’1,71% della popolazione totale. Le loro difficili condizioni di vita, dovute a discriminazioni e violenze razziste, sono di vecchia data e nel corso del 1999 migliaia di rom preferirono emigrare in Finlandia, dove chiesero asilo politico.
Quello delle minoranze nazionali nella Slovacchia post comunista è stato sentito dalla popolazione come uno dei problemi più importanti del Paese, a causa della presenza, accanto ai rom, di una forte componente ungherese, circa 600.000 persone, ossia il 9% degli abitanti, una rutena, una ceca e una tedesca (tutte inferiori all’1%). Il nazionalismo diffuso, tipico delle nazioni poco numerose come mezzo di difesa delle proprie tradizioni, non ha risparmiato Bratislava, che ha sancito come unica lingua ufficiale del Paese lo slovacco. Solo su pressione dell’Unione europea, una norma approvata alla fine del secolo scorso ha garantito il rispetto (ma non l’uso ufficiale) della lingua e delle tradizioni delle minoranze nei distretti dove queste rappresentassero più del 20% della popolazione. Purtroppo 158 municipalità comprendenti più di 100.000 persone si sono trovate fuori dalla portata della legge.
Ma le violenze e le discriminazioni nei confronti dei rom hanno una storia addirittura più lunga dell’indipendenza slovacca (primo gennaio 1993) e in passato hanno avuto luogo anche nella Repubblica ceca, dove, negli anni Novanta, sono stati registrati episodi di violenza anche gravissimi verso i rappresentanti di questa etnia.
A Levoča, come detto, sono state create classi separate per i rom già in passato nella scuola primaria “Francisciho 11”, che oggi ospita 30 classi, di cui 4 “speciali”, con 525 alunni. Le classi “speciali” sono quelle frequentate dai rom e a nulla sono servite le proteste dei loro genitori, che si sono ripetutamente rivolti al direttore dell’istituto Peter Tatarko. Amnesty international è intervenuta in difesa della minoranza, chiedendo il rispetto dei diritti civili, l’integrazione dei bambini e la possibilità per loro, oltretutto cittadini slovacchi, di crescere in una comunità complessa e multietnica. La segregazione nelle scuole della Slovacchia, ha dichiarato Jezerca Tigani, vicedirettore di Amnesty international europa, impedisce ai bambini rom di accedere a una formazione di qualità: “oltre a violare il loro diritto a un'istruzione priva di ogni forma di discriminazione”, ha proseguito, “nel lungo termine, li priva di una vasta gamma di altri diritti, compreso il diritto alla salute, al lavoro e alla libertà di espressione, escludendo i rom dalla piena partecipazione alla vita sociale slovacca, marginalizzandoli nel loro mondo”. Una legge del 2008 aveva bandito in Slovacchia ogni forma di discriminazione scolastica e, nell’agosto 2010, il governo slovacco aveva promesso ancora una volta di porre fine alla discriminazione etnica nelle scuole. Però è sempre mancata l’adozione di misure concrete per realizzare tali propositi e, al contrario, il nuovo governo in carica dal marzo 2012 ha istituito distinti plessi scolastici per bambini delle cosiddette “comunità marginali”.
La crisi economica e il rischio della fine dell’euro distolgono l’attenzione dei governanti europei da problemi legati al rispetto dei diritti civili nei Paesi di recente passaggio al liberalismo. A guardare bene, si tratta di un ulteriore sintomo di crisi dell’Unione e, forse, della fretta con cui la stessa è stata allargata il primo maggio 2004 a Paesi ancora poco pronti.
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