Non si lavora impunemente sul conflitto, ed è vano sperare di affrontare l’oblio fondatore del politico senza che il rimosso faccia capolino (N. Loraux, La città divisa)
Il 1° agosto 1980 la Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia ascoltò la testimonianza di Eleonora Moro. Si trattò di un’audizione storica: poche settimane prima, nella seduta del 23 maggio, erano stati ricevuti Giulio Andreotti e Francesco Cossiga, rispettivamente alla guida della presidenza del Consiglio e del Viminale durante i 55 giorni del sequestro organizzato dalle Brigate Rosse. Le loro versioni erano state messe in discussione dalla signora Moro, convinta che l’assassinio del più importante uomo politico del Paese dovesse essere ricondotto all’iniziativa di centrali di potere occulto ben più potenti di un’organizzazione terroristica. Il 13 giugno fu la volta del ministro degli Interni Virginio Rognoni, il 1° luglio toccò ai vertici dei servizi segreti militari e civili, il generale Giuseppe Santovito, direttore del Sismi, e Giuliano Grassini, a capo del Sisde. L’8 luglio, infine, venne il turno del generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, in un’audizione anch’essa destinata a lasciare il segno per il confronto tra il comandante del Nucleo speciale antiterrorismo e Leonardo Sciascia, membro della Commissione per conto del Partito radicale.
Nel frattempo, il 27 giugno, veniva distrutto, nei cieli di Ustica, il Dc 9 dell’Itavia diretto da Bologna a Palermo, il cui carattere doloso fu riconosciuto dalle istituzioni italiane solamente a partire dal 1986. Dopo la pausa estiva, i lavori della Commissione ripresero il 25 settembre 1980. Fu necessario attendere, tuttavia, il 9 ottobre per avere il primo esplicito riferimento alla strage del 2 agosto, quando un ordigno ad alto potenziale era scoppiato all’interno della stazione di Bologna, provocando la morte di 85 persone e ferendone più di 200. A richiamare l’attenzione dei commissari era stato il segretario del Partito comunista Enrico Berlinguer invitato a testimoniare sul ruolo dei comunisti italiani nei giorni del sequestro Moro.
La Commissione Moro era stata istituita per legge il 23 novembre 1979, le attività iniziarono nel gennaio 1980: i suoi componenti, 20 senatori e 20 deputati, erano nominati dai gruppi parlamentari. Dotata degli stessi poteri e degli stessi limiti dell’autorità giudiziaria esercitati nella fase istruttoria, la sua funzione fu di carattere squisitamente politico, non avendo i suoi lavori valore giurisdizionale. Gli obiettivi che si poneva la Commissione erano sostanzialmente due: indagare sul sequestro e sull’assassinio di Aldo Moro e sui «gravi eventi criminosi e terroristici tendenti al sovvertimento delle istituzioni accaduti in Italia». I risultati non si fecero attendere sul piano investigativo, grazie anche al contributo di alcuni commissari, come il senatore comunista Sergio Flamigni, tra i protagonisti intellettuali della tormentata vicenda Moro. I lavori della Commissione, però, differivano da analoghe iniziative istituzionali che erano state organizzate nei processi di transizione alla democrazia dei Paesi che erano usciti, tra gli anni Ottanta e Novanta, da dittature, regimi oppressivi, guerre civili o da situazioni genocidarie, come nei casi, ad esempio, della Comisiòn nacional para la desapariciòn de personas in Argentina (1983-1984), della Comisiòn nacional para la veridad y reconciliaciòn in Cile (1990-1991) e della la Truth and Reconciliation Commission in Sud Africa (1995-1998).
Se non altro perché i lavori della Commissione Moro erano iniziati nel pieno della continuità istituzionale e politica della Repubblica, senza che nessuna cesura sancisse il passaggio da un regime a un altro. Il dato ancora più impressionante, tuttavia, fu il contesto in cui agiva la Commissione: il 1980, infatti, era stato uno degli anni più segnati dal terrorismo. Si registrarono, secondo stime approssimative, 109 episodi di violenza politicamente motivata, 430 attentati non rivendicati, 294 attentati rivendicati, di cui 222 attribuibili alla lotta armata di sinistra e 21 al terrorismo neofascista. Furono compiuti 72 attentati contro persone che provocarono 45 caduti, senza contare, quindi, le vittime causate dalla strage del 2 agosto. Nel 1980 agirono complessivamente 77 gruppi clandestini di estrema sinistra, mentre 19 erano le formazioni della destra eversiva.
È lecito interrogarsi su come sia stato possibile definire per lungo tempo, come sovente è stato fatto da diversi punti di osservazione, la strage di Bologna come un attentato "senza movente" e "senza contesto". Le sentenze giudiziarie, susseguitesi fino a oggi, hanno dimostrato piuttosto il contrario
Di fronte a questi dati è lecito interrogarsi su come sia stato possibile definire per lungo tempo, come sovente è stato fatto da diversi punti di osservazione, la strage di Bologna come un attentato «senza movente» e «senza contesto». Le sentenze giudiziarie, susseguitesi fino a oggi, hanno dimostrato piuttosto il contrario: la Corte suprema di cassazione condannò definitivamente per strage, il 23 novembre 1995, i terroristi neri Valerio Fioravanti e Francesca Mambro. Anni dopo, l’11 aprile 2007, sempre la Cassazione ritenne colpevole per lo stesso reato Luigi Ciavardini, minorenne all’epoca del fatto. Il lunghissimo iter processuale era stato l’effetto, in parte, della sistematica e complessa azione di depistaggio compiuta dai servizi segreti, un’operazione (denominata «Terrore sui treni») per cui furono condannati alcuni ufficiali del Sismi dalla sentenza della Corte d’assise di Roma del 29 luglio 1985. Una nuova inchiesta, volta a determinare una pista internazionale legata al conflitto medio-orientale, si aprì nel 2005 dopo l’interpellanza del deputato di Alleanza nazionale Vincenzo Fragalà, chiudendosi nel 2014 con un nulla di fatto. Nel gennaio del 2020 la Procura di Bologna ha condannato Gilberto Cavallini, per concorso in strage, dopo un esposto presentato dai legali dell’Associazione familiari delle vittime. A tutt’oggi è in corso l’ultimo processo contro i presunti mandanti: è stato rinviato a giudizio Paolo Bellini, ex-militante di Avanguardia nazionale, reo confesso per l’omicidio nel 1975 del militante della sinistra extraparlamentare Alceste Campanile, divenuto poi killer di n’drangheta, collaboratore di giustizia, tra i protagonisti del processo sulla presunta trattativa Stato-mafia. Insieme a Bellini, è di nuovo indagato, con ad altri esponenti delle istituzioni, dei servizi di sicurezza, del mondo economico-finanziario, il capo della loggia massonica P2 Licio Gelli, scomparso nel 2015, dopo il suo coinvolgimento nei depistaggi del passato, questa volta come mandante della strage.
La voragine creata dalla bomba non ha creato un buco nero inaccessibile: le centinaia di migliaia di pagine giudiziarie, digitalizzate e rese fruibili dall’Associazione dei familiari delle vittime della strage, forniscono, piuttosto, la possibilità di percorrere la traiettoria di quello che sembra essere un punto di precipitazione della storia del Novecento. Le stragi non avvengono, infatti, per caso. Fin dai tempi dell’Unità, Bologna era stata teatro di tensioni difficili da comporre e di una ricorrente conflittualità, in permanente oscillazione tra un assetto politico conservatore e l’esigenza del mutamento. Radicale era stato il conflitto che opponeva la città alle campagne, aspro il rapporto tra le istituzioni e la Chiesa in quella che fu la seconda città dello Stato pontificio. Divenuto il principale snodo ferroviario del Paese, Bologna conobbe un processo di modernizzazione e di industrializzazione non lineare, contrastato e con un alto costo sociale. Retroterra strategico durante la Grande guerra, la città incarnò allo stesso tempo le istanze pacifiste del movimento operaio, divenendo un vero e proprio incubo per le alte gerarchie delle Forze armate. Laboratorio del riformismo socialista, punto di approdo del massimalismo e delle più diverse tradizioni rivoluzionarie, l’avvento del fascismo in città fu annunciato da un lunghissimo sciame sismico di conflitti provenienti dalle campagne e rasenti la guerra civile. Bologna fascista anticipò le evoluzioni del regime mussoliniano, combinando il terrore contro le opposizioni alla ricerca del consenso popolare, la mobilitazione passiva delle masse al compromesso con le forze conservatrici. Contrastava questo disegno un antifascismo radicato e diffuso che pagò un prezzo molto alto, in patria come all’estero. La crisi degli anni Trenta e infine la Guerra mondiale – 7.000 furono le vittime civili dei bombardamenti, mentre fu distrutto il 43% dell’abitato – crearono le condizioni per un rovesciamento dei rapporti di forza: ne emerse vittorioso il Partito comunista a capo della Resistenza armata in un vasto territorio, tra città, montagna e campagna, dove l’ordine nazi-fascista si era imposto con rappresaglie, eccidi e deportazioni.
Il tormentato Dopoguerra di Bologna e dell’intera regione, con lo spettro dello scoppio di una seconda guerra civile, sfociò, inaspettatamente, nel più importante laboratorio politico dell’Italia repubblicana: un progressivo processo di democratizzazione della società, delle forze produttive e della stessa economia generò un’inedita combinazione tra governo pubblico, iniziativa privata, spinta dal basso del movimento operaio e ruolo dei ceti medi, in un contesto urbano in costante trasformazione per l’aumento dei settori terziario e quaternario. Molto più di una vetrina per le capacità gestionali del Pci, su Bologna gravò, tuttavia, più di ogni altra città italiana, l’ombra lunga della Guerra fredda. Fino al disgelo dei primi anni Sessanta, totale fu lo scontro tra comunisti e anticomunisti, tra la Chiesa e le istituzioni locali, tra lo Stato e le istanze autonomistiche della città. Bologna, insieme a Reggio Emilia, si trovava, inoltre, direttamente esposta alle tensioni militari tra le due grandi potenze, virtualmente collocata in una delle direttrici della possibile invasione sovietica del territorio nazionale, che dal confine orientale avrebbe puntato a tagliare in due il paese e a neutralizzare il porto di Livorno, la cui importanza strategica per l’Alleanza atlantica, insieme agli altri centri portuali della Penisola, era grandemente aumentata dopo l’uscita della Francia dal comando integrato della Nato nel 1966.
La contestazione giovanile nel 1977, lo scontro frontale tra il Pci e parte dei movimenti, la guerriglia urbana e il lungo strascico di violenze che ne seguì segnarono una frattura solo in parte sanabile, facendo emergere, in maniera dirompente, tutte le contraddizioni tipiche di un territorio divenuto ormai compiutamente un’area metropolitana, vasta ed articolata
Su quest’implicito potenziale di conflitto impattarono i profondi processi di trasformazione del tessuto sociale che a Bologna, come nel resto del Paese, trovarono espressione politica nello scoppio della protesta studentesca e operaia del biennio 1968-1969. La città emiliana si distinse per la sua capacità di assorbire, assecondare e guidare il cambiamento in corso. Nel lungo periodo, tuttavia, complice la diffusione di nuove forme di povertà e l’aumento esponenziale della popolazione universitaria, il ciclo di mobilitazione collettiva finì con l’erodere l’azione di governo e l’egemonia comunista in città. L’esplosione della contestazione giovanile nel 1977, lo scontro frontale tra il Pci e parte dei movimenti, la guerriglia urbana e il lungo strascico di violenze che ne seguì segnarono una frattura solo in parte sanabile, facendo emergere, in maniera dirompente, tutte le contraddizioni tipiche di un territorio divenuto ormai compiutamente un’area metropolitana, vasta ed articolata. Su questa crisi s’innescò, a spirale, un processo di sfaldamento delle forze politiche che avevano governato, fin dal secondo Dopoguerra, Bologna. Un’occasione imperdibile per l’opinione pubblica moderata che aveva da sempre riconosciuto le capacità dei comunisti di governare la città, pur propiziando un riequilibrio dei rapporti di potere, in alcuni casi auspicando un vero e proprio rovesciamento, soprattutto in quei settori sociali che non si erano mostrati impenetrabili alla pressione dei gruppi d’influenza, come la P2 che aveva mostrato di avere in città non pochi addentellati.
Nel 1986 Renato Zangheri, curò, per la casa editrice Laterza, un volume dedicato alla storia contemporanea di Bologna, a cui collaborarono Roberto Finzi, Franco Tassinari, Giuliano Pancaldi, Andrea Battistini e Flavio Caroli, tutti intellettuali docenti all’Università di Bologna. Si trattò di un’operazione culturale innovativa e di straordinario coraggio. Nel volume compariva un saggio dedicato alla storia politica, scritto da Pier Paolo D’Attorre, che si concludeva, non a caso, con pagine pregnanti dedicate alle stragi che avevano colpito la città fino al 1984. Nella sua disanima, D’Attorre si era soffermato a lungo sugli anni dell’occupazione nazista e della guerra civile. Tra le fonti riportate nel testo, veniva citato un documento, pubblicato nel febbraio del 1944, della Guardia nazionale repubblicana fascista che sembrava caricarsi di una valenza profetica per la successiva storia di Bologna: «Solo l’applicazione pratica di misure coercitive…può modificare la situazione, in quanto non si può tenere come base, nei confronti della maggioranza della popolazione, una politica tendente ed informata alla forza del diritto, ma bensì, ed esclusivamente, al diritto della forza». La stessa logica avrebbe animato la violenza stragista 36 anni dopo. Attraverso la voragine provocata dalla bomba del 2 agosto era passato anche tutto questo.
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