Questo articolo fa parte dello speciale La guerra in Ucraina
Torna la guerra in Europa e tornano, naturalmente, le riflessioni sui modi attraverso i quali questa sciagura così concreta e tragica possa essere fermata e, anzi, il più possibile evitata. Nelle teorie del pacifismo si tende a distinguere tra diverse prospettive: ad esempio, tra quelle realistiche, basate sugli equilibri delle forze militari e delle potenze, quelle etico-finalistiche, fondate sulla capacità umana di rinnovare i propri valori morali, quelle istituzionali, centrate sul ruolo del diritto e delle istituzioni. Ognuna di queste prospettive ha pregi e difetti, come ha spiegato Norberto Bobbio in quel testo fondamentale che è Il problema della guerra e le vie della pace (Il Mulino, I ed. 1979) – nel quale tra le altre cose era chiarito il perché la guerra nucleare, che oggi è stata incredibilmente evocata da Vladimir Putin, fosse da considerare una «via bloccata» – ma può essere utile in questi giorni riprendere il nucleo della riflessione teorica bobbiana per ragionare su alcuni punti cruciali.
In un testo del 1979 era chiarito il perché la guerra nucleare, che è stata incredibilmente evocata da Vladimir Putin, fosse da considerare una "via bloccata": e oggi?
Mi soffermerò quindi sulla terza forma di pacifismo, che è quella maggiormente difesa da Bobbio, perché nella situazione attuale fa da cornice alle scelte che si stanno compiendo e offre forse maggiori possibilità di azione in vista del ristabilimento della pace. Il pacifismo giuridico è figlio di una lunga tradizione: lo si fa spesso cominciare con Immanuel Kant e col suo trattato Per la pace perpetua (1795), ma in realtà affonda le sue radici nei primi autori del giusnaturalismo moderno, impegnati a costruire l’impalcatura istituzionale adatta a superare il conflitto tra gli uomini e tra gli Stati. L’idea di fondo di questa tradizione è che il modo più efficace per garantire la pace tra due o più parti confliggenti sia costruire istituzioni giuridiche capaci – cioè aventi l’autorità – di decidere sulle ragioni del conflitto stesso. Peace through law, come recita il titolo di un’importante opera di Hans Kelsen del 1944, vuol dire esattamente questo: è il diritto, e quindi le istituzioni che lo producono e lo applicano, a rappresentare quel Terzo imparziale e super partes chiamato a comporre il conflitto, e anzi tendenzialmente a prevenirlo. Come aveva visto lucidamente anche Albert Einstein nella celebre lettera a Sigmund Freud: «gli Stati creino un’autorità legislativa e giudiziaria col mandato di comporre tutti i conflitti che sorgano tra di loro» (S. Freud e A. Einstein, Perché la guerra?, Bollati Boringhieri, 2006, p. 60).
Anche il teorico della relatività sapeva bene che una logica di questo tipo richiede che i soggetti coinvolti rinuncino ad una parte importante della propria sovranità e siano disposti ad entrare con gli altri in una unione sovrastatuale. È questa l’idea di fondo della federazione che ha dato vita agli Stati Uniti d’America e ha ispirato i padri dell’Unione europea fin dal Manifesto di Ventotene. Finché non si uscirà dalla logica della sovranità non è possibile, per la pace, avere garanzie durature. In un discorso alla Costituente del 1947 Luigi Einaudi, analizzando quanto successo nei decenni precedenti e ragionando sul fallimento della Società delle Nazioni, ribadiva che il «mito funesto» della sovranità assoluta degli stati «è il vero generatore della guerra»: esso «arma gli stati per la conquista dello spazio vitale», e da esso nascono persecuzioni e barriere di ogni tipo. Quello degli Stati Uniti d’Europa, nei quali potessero convergere «direttamente i popoli europei nella loro unità, senza distinzione fra stato e stato» era, per il futuro presidente della Repubblica italiana, «l’unico ideale per cui [valeva] la pena di lavorare» (La guerra e l’unità europea, Edizioni di Comunità, 1948, pp. 130-131).
In questa cornice si inserisce il pensiero pacifista di Norberto Bobbio, che anche su questo terreno è da considerare uno dei principali pensatori italiani del Novecento (in questo caso, insieme al suo amico Aldo Capitini, più impegnato sul versante del pacifismo etico-religioso). Fin dal 1945, quando scriveva che «il federalismo è il principio più profondamente innovatore dell’età contemporanea» (Tra due repubbliche, Donzelli, 1996, p. 8), in numerosi scritti Bobbio ha insistito sulla necessità di creare quel Terzo la cui assenza è il vero difetto dell’ordinamento internazionale (Il terzo assente, Edizioni Sonda, 1989, è il titolo della sua seconda raccolta di scritti su questo tema). Senza farsi illusioni sulla possibilità di conseguire il risultato nei tempi in cui egli scriveva, il filosofo torinese indicava chiaramente la meta alla quale i popoli e gli Stati avrebbero dovuto guardare se volevano davvero garantirsi la pace, tanto più in una condizione di latente guerra nucleare.
Il filosofo torinese indicava chiaramente la meta alla quale i popoli e gli Stati avrebbero dovuto guardare se volevano davvero garantirsi la pace, tanto più in una condizione di latente guerra nucleare
Quella indicazione e quella meta continuano a valere, oggi come ieri, se si pensa che una caratteristica di fondo del pacifismo giuridico è la convinzione che la forza non possa essere eliminata dalle vicende umane, ma che di essa occorra però definire l’uso, concependo il diritto appunto come un insieme di norme che ha per contenuto la regolamentazione del chi, come, quando e quanto nell’uso della forza coattiva. Naturalmente, sembra assai difficile arrivare a stipulare quel patto federativo tra le nazioni che è necessario per poter autorizzare il Terzo a intervenire, allo stesso modo in cui lo stato interviene all’interno di un territorio definito, e sappiamo tutti quanto l’Onu, pur avendo fatto un passo avanti rispetto alla Società delle Nazioni, costituisca un pallido esempio di ciò che si dovrebbe realizzare per arrivare a istituzioni autenticamente efficaci (oltre che legittime). In mancanza di questo, rimane comunque l’idea che l’uso sconsiderato e arbitrario della forza, da parte di un qualunque soggetto, non possa essere tollerato dagli altri membri della comunità internazionale, per la semplice ragione che una totale mancanza di interventi significherebbe — come spiegava Ugo Grozio nel 1625 — «la massima libertà di commettere crimini e quasi un diluvio di malvagità» (Il diritto della guerra e della pace, Libro I, cap. II, § 6).
Resta dunque il problema del «che fare?» qui ed ora e non c’è dubbio che, se da un lato, esiste l’urgenza di contrastare la forza nei modi in cui è possibile farlo — il che non significa che lo si possa fare solo con le armi, rispondendo con violenza a violenza —, dall’altro lato esiste la possibilità di lavorare seriamente alla costruzione concreta delle condizioni di una comunità internazionale votata alla pace. Queste condizioni sono enunciate chiaramente da Kant nel Primo articolo definitivo del suo trattato, là dove afferma che «la costituzione di ogni stato deve essere repubblicana». Il senso dell’articolo è evidente: solo uno stato nel quale siano garantiti la limitazione del potere attraverso istituzioni rappresentative, nonché una serie diritti di per i cittadini, sarà poco disposto a entrare in guerra con altri stati, per la ragione che negli stati repubblicani (oggi diremmo democratici, ma la questione può essere qui tralasciata) la decisione di entrare in guerra non dipende dal capriccio di uno solo bensì dal volere del popolo, il quale, dovendo pagarne tutte le conseguenze, «rifletterà a lungo prima di iniziare un così cattivo gioco».
In questa direzione Bobbio ha insistito spesso sul legame del pacifismo giuridico con l’idea della democrazia e dei diritti: un circolo virtuoso, nel quale democratizzazione delle istituzioni internazionali e democrazia interna agli stati sono chiamati ad alimentarsi a vicenda. In un mondo in cui il circolo sembra piuttosto volgere al vizioso, la cosa più importante da fare è probabilmente cercare di far sì che la democrazia e i suoi valori possano rafforzarsi, e magari affermarsi — va da sé, senza «esportazioni» violente — là dove ancora essi non siano arrivati. Ed è forse proprio lo scontro tra la democrazia, intesa anche come Stato di diritto, e l’autocrazia, la posta in gioco della aggressione che Putin ha consumato ai danni dell’Ucraina, come aveva visto Garry Kasparov, il mitico campione di scacchi nonché fiero oppositore del Presidente russo, in un suo articolo del 2013: se «uno dei principi base della civiltà europea è quello della supremazia del diritto» — e «il diritto è ciò che limita l’azione del governo» – «la scelta dell’Europa da parte dell’Ucraina sarà la prova più evidente che la dottrina Putin, la quale mira a creare una versione soft dell’Urss sotto l’ombrello dell’Unione eurasiatica, si è dimostrata fallimentare» (Scacco matto allo zar, Marotta&Cafiero 2021, pp. 186-187). Sono le parole di un russo, è bene ribadirlo, e di un russo che contesta la politica di Putin.
Se tutto ciò ha un suo fondamento, appare evidente che il compito dei paesi che si stanno mobilitando contro l’aggressione putiniana non può essere solo quello di aiutare il governo e il popolo ucraini a respingere l’attacco subito, facendo valere il principio che non si può usare la forza in maniera arbitraria e ristabilendo in tal modo la forza del diritto; ma è anche quello di aiutare quanto più possibile coloro che si battono per la libertà e la democrazia, persino nella Repubblica russa, avendo la lungimiranza di lavorare per rafforzare le condizioni che permettono ai popoli di vivere pacificamente e di risolvere altrettanto pacificamente le loro eventuali divergenze.
Il diritto non è solo regolamentazione dell’uso della forza, e quindi una risposta della forza legittima alla forza illegittima; esso è anche, se non innanzitutto, lo spazio del riconoscimento reciproco e lo strumento per far sì che su questo riconoscimento possano costruirsi le relazioni tra gli individui e gli Stati. La resistenza che il popolo russo può mettere in campo in nome di questi valori, insieme a tutte le iniziative giuridiche che possono essere attivate dalle istituzioni esistenti (compresa la Corte penale internazionale) sono una risorsa non meno importante delle armi, il cui aumento e intensificazione – appare persino banale ripeterlo – non sono mai una buona notizia.
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