«A song without music is a lot like H2 without the O» [Ira Gershwin (1896-1983)]

«Dylan, quel farabutto!»: qualcuno giudicherà poco appropriato iniziare così un articolo dedicato all’ottantesimo compleanno di Bob Dylan, ma la frase è stata pronunciata pochi anni fa da uno studioso di musica molto stimato, in un convegno al quale partecipavano molti altri studiosi ugualmente stimati, in una sede prestigiosa. Bisogna aggiungere che l’esclamazione era inserita in un intervento che non aveva nulla a che fare né con Dylan né con la sua musica o con i generi musicali collegati: era come se un fisico, in mezzo a considerazioni sulla materia oscura o sul bosone di Higgs, avesse sbottato: «Piove, governo ladro!». E la similitudine non si ferma al fatto che l’interiezione fosse fuori dal contesto, anzi: perché si può immaginare che un oratore, se confida che il suo pubblico abbia poca simpatia per il governo, potrebbe in quel modo invocare un’accondiscendenza, da sfruttare retoricamente per avvalorare le proprie tesi, tutt’altre tesi. Ecco, mancava un «nevvéro»: «Dylan, quel farabutto, nevvéro!?». E infatti, nessuno tra il pubblico accennò a una reazione: alcuni, forse, perché colti di sorpresa da quell’uscita, altri perché la condividevano.

Del resto, erano passate poche settimane dalla data in cui, finalmente, Bob Dylan aveva ritirato il premio Nobel per la letteratura, vinto due anni prima: la notizia, a suo tempo, aveva esacerbato gli animi di molti, scatenato dibattiti ontologici (cosa c’entrano le canzoni con la letteratura? E il teatro, invece?), ringalluzzito i sostenitori dell’equazione «testi delle canzoni = poesie». Quasi nessuno, a dire la verità, si prese la briga di commentare il lavoro di Dylan come musicista, dando per scontato che anche per l’Accademia delle scienze di Stoccolma l’aspetto musicale delle sue canzoni fosse fuori questione (perché non si assegna un premio Nobel per la musica, «nevvéro»?). Ma era proprio così?

Quasi nessuno si prese la briga di commentare il lavoro di Dylan come musicista, dando per scontato che anche per l’Accademia delle Scienze di Stoccolma l’aspetto musicale delle sue canzoni fosse fuori questione

La motivazione del premio recita: «Per aver creato nuove espressioni poetiche all’interno della grande tradizione della canzone americana». Nella nota biografica allegata si dice fra l’altro: «Le canzoni di Bob Dylan hanno radici nella ricca tradizione della musica folk americana […]. Dal suo debutto nel 1962, ha ripetutamente reinventato le sue canzoni e la sua musica». E allora, non è vero che il premio non riguardi la musica. Il punto è di capire che cosa sia quella «grande» o «ricca» tradizione (della canzone o della musica folk?) e quale effettiva competenza della storia della musica folk e popular, e del ruolo di Dylan al suo interno, fosse alla base del giudizio dell’Accademia. Perché, tra l’altro, è vero che Dylan ha «ripetutamente inventato le sue canzoni e la sua musica», ma anche il lettore più distratto della sua biografia dovrebbe sapere che prima di entrare nel giro del folk music revival Dylan si era appassionato al rock ‘n’ roll e alle canzoni dei tunesmiths del Brill Building (le coppie di parolieri e compositori che avevano fornito il materiale ai cantanti Usa fra la fine degli anni Cinquanta e i primi Sessanta), che era perfino aperto a prendere in considerazione Neil Sedaka, in quanto autore delle proprie canzoni, e che un’altra sua fonte indiscutibile, più tardi, sarebbe stata la musica country & western. Quindi quella «grande tradizione della canzone americana» va intesa in un senso quasi onnicomprensivo, nel quale certamente si deve includere quella che per qualunque storico della musica statunitense è la «grande tradizione» per eccellenza: quella di Tin Pan Alley, di Irving Berlin, di George e Ira Gershwin, di Jerome Kern e Lorenz Hart, di Richard Rodgers e Oscar Hammerstein jr., di Cole Porter, fino a Stephen Sondheim e – inevitabilmente – Leonard Bernstein. Ma per arrivare a un giudizio come quello dell’Accademia quella tradizione bisogna conoscerla, e magari essere liberi dal preconcetto adorniano che la musica di Tin Pan Alley fosse il prodotto di una industria fordista basata sulla standardizzazione, dunque tutto il contrario di ciò che le persone colte chiamano «poesia» (si vedano, invece, Ph. Furia, The Poets of Tin Pan Alley. A History of America’s Great Lyricists, Oxford University Press, 1990, e A. Forte, Listening to Classic American Popular Songs, Yale University Press, 2001).

I musicisti l’avevano sempre saputo che nelle mie canzoni c'era qualcosa di più che non le sole parole, ma la maggior parte della gente non fa il musicista

Dylan stesso ha rivendicato qualche volta il proprio ruolo di compositore: «I musicisti l’avevano sempre saputo che nelle mie canzoni c'era qualcosa di più che non le sole parole, ma la maggior parte della gente non fa il musicista» (B. Dylan, Chronicles, Volume I, trad. it. Feltrinelli, 2004). Ha anche detto, in un’intervista: «La maggior parte di quelli che scrivono di musica non hanno la minima idea di come ci si senta a suonarla». È difficile dargli torto. Se in una canzone, in una citazione, in una dichiarazione di Dylan si incontrano i nomi di autori come William Blake, Walt Whitman, Edgar Allan Poe (come in I Contain Multitudes, il brano che dà inizio all’album più recente, del 2020) si scatena la corsa dei critici a rintracciare – e per lo più rinnovare stancamente, dopo decenni – le influenze letterarie di Dylan; ma se parla di musica, silenzio. Nel primo volume, l’unico finora pubblicato, della sua autobiografia (Chronicles, Volume I, cit.), Dylan dedica alcune pagine (pp. 141-145) a uno stile di accompagnamento che gli era stato insegnato da Lonnie Johnson nei primi anni Sessanta, e che poi aveva riscoperto più tardi, ponendolo alla base del rinnovamento del proprio repertorio. È una descrizione dettagliata, ma poiché Dylan non usa un gergo tecnico condiviso né ricorre a esempi annotati è difficile da capire; è anche troppo lunga da riportare qui, ma si può provare a suonarla.

Comunque sia, è certamente la chiave per comprendere le trasformazioni radicali alle quali Dylan sottopose da un certo punto in poi le sue canzoni più note, fra lo sconcerto di una parte del pubblico e lo sconforto dei critici. Ma non risulta che quelle pagine siano state usate come spunto per un’analisi dello stile vocale e chitarristico di Dylan. Chissà che qualcuno, prima o poi, non ci voglia provare.

Per chi, invece, abbia frequentato le canzoni di Bob Dylan da cantante e strumentista, quel processo di continua invenzione e reinvenzione ricordato dall’Accademia svedese è quasi ovvio.

Dylan ha ragione a sostenere di essere stato un innovatore anche (e soprattutto?) nella musica. Le corde di recita delle sue canzoni «col dito puntato» (l’espressione compare in un saggio con intervista di Nat Hentoff del 1964, Quei suoni esplosivi, fragorosi, dirompenti, in Parole nel vento. I migliori saggi critici su Bob Dylan, a cura di A. Carrera, Interlinea, 2008, p. 35) del periodo «politico», l’uso narrativo del fingerpicking in Percy’s Song (si veda il mio Il tempo di una canzone, in F. Fabbri, Il tempo di una canzone. Saggi sulla popular music, Jaca Book, 2021) e in Mr. Tambourine Man, le linee di basso discendenti e ascendenti per grado di Like a Rolling Stone e delle altre canzoni intorno al 1965, la svolta (scandalosa!) verso la forma «Aaba» in Nashville Skyline (1969), dove Dylan maneggia il bridge con la disinvoltura e l’arditezza di un Rodgers (si confronti il bridge di I Threw It All Away con quello di Blue Moon: qual è quello più ingegnoso?), fino alla decomposizione della prosodia nelle canzoni degli anni Duemila, come Nettie Moore (2006), o la stessa I Contain Multitudes (2020).

Cento di questi anni, farabutto!