Le Mercedes di Fatah. Gli israeliani le hanno chiamate impietosamente «fancy cars», autovetture di lusso dotate di un particolare glamour in quanto ambito status symbol. A giudicare dall’assembramento di Mercedes a Betlemme, nei primi giorni di agosto, quando si è tenuto il sesto congresso del Fatah, il partito fondato nell’oramai lontano 1959 da Yasser Arafat, pareva d’essere a un meeting di industriali.
Una lunga fila di macchine, tirate a lucido, attendeva parte di quei 2.223 delegati che avevano preso parte alle prime assise del partito dopo ventidue anni. Un congresso che avrebbe dovuto discutere del destino dei palestinesi e, contemporaneamente rilanciare una formazione che ha a lungo tempo dominato la scena palestinese. Movimento nato nei tumultuosi anni della decolonizzazione, Fatah era assurto agli onori della cronaca legando le sue fortune al carismatico capo che poteva vantare. L’abilità di Arafat, visto da molti come una sorta di Che Guevara mediorientale, in realtà leader centrista, di estrazione dorotea, abile nel coniugare le rivendicazione di una giovane generazione con la massima attenzione per gesti di forza mediatici, era stata quella di rivelarsi capace da subito di divenire il punto di riferimento per interessi contrapposti.
Gli anni Settanta costituirono per il Fatah, trascinata dalla leadership indiscussa e galvanizzante Arafat, il momento di massimo fulgore, laddove al movimentismo della lotta armata si coniugò l’avvio di un processo di legittimazione e riconoscimento che sarebbe terminato solo con gli accordi di Oslo, nel 1993. Con il decennio successivo – caratterizzato dall’invasione israeliana del Libano, dall’espulsione dell’Olp e dalla cattività tunisina – erano seguiti anni di appannamento. I Territori palestinesi avevano fatto da sé, con l’Intifada, nella quale era nata e cresciuta una nuova generazione di militanti. Non di meno, lievitava la forza di attrazione dell’islamismo radicale. L’ingresso nell’agone politico di Hamas risale al 1987 ma già da tempo aveva iniziato a tessere la sua trama. Al mutamento delle condizioni ambientali Fatah, partito di ispirazione pittorescamente marxista, di cultura terzomondista e di militanza laica, molto legato ai modelli culturali degli anni Sessanta e Settanta, non ha saputo contrapporre una pari evoluzione. Beneficiando della creazione, nel 1995, dell’Autorità nazionale palestinese, primo abbozzo di autogoverno nei Territori, rinviò il confronto con le sue aporie, preferendo la più comoda divisione delle poltrone createsi con il nuovo centro di potere.
Il congresso di Betlemme ha portato alla luce la contraddittorietà che ne anima lo spirito interno non meno che l’aspra divisione in fazioni
Ora, il congresso di Betlemme ha portato alla luce la contraddittorietà che ne anima lo spirito interno non meno che l’aspra divisione in fazioni. Non a caso a fronte dei tre giorni previsti è durato ben sette. Mentre la discussione ha offerto poca sostanza politica, laboriosissime sono risultate le procedure per eleggere i 18 membri a suffragio del Comitato centrale, l’esecutivo interno, e i 120 del Consiglio rivoluzionario. I delegati di Gaza, circa 400, impediti fisicamente a partecipare non dal rifiuto israeliano bensì dal veto di Hamas, hanno votato telefonicamente. Abu Mazen ha ottenuto quel che voleva, la rinnovata elezione, ora pressoché plebiscitaria (soli 67 «dissenzienti»), a leader del Fatah. Ma la contrapposizione tra le diverse anime - i «tunisini» della vecchia guardia, i «giovani» dei Territori, raccoltisi intorno a Marwan Barghouti e l’ala «militarista» - ha trovato scarsa mediazione permettendo ai secondi di vincere ai punti, con l’elezione di 13 membri nell’esecutivo. La dottrina del partito ha però conosciuto una nuova radicalizzazione riguardo al confronto con Israele.
Mentre lo storico contendente si è visto accusare della morte di Arafat (mozione d’ordine approvata unanimemente dal congresso e respinta al mittente dai destinatari in quanto «patetica» e « delirante») il documento conclusivo dell’assise ha rivendicato la sovranità palestinese su Gerusalemme, lasciando così intendere che Fatah intende esercitarla su tutta la città. Non di meno ad essa segue un richiamo sulla necessità del «sacrificio» fino alla vittoria, che nel linguaggio mediorientale riecheggia intendimenti decisamente bellicosi.
La piattaforma politica sembra quindi risolversi in una serie di affermazioni di principio, distanti dalle necessità concrete dell’autogoverno palestinese, a partire dalla lotta alla corruzione che è all’origine del voto popolare a favore di Hamas. Anche alla luce di questo obnubilamento dell’azione concreta va detto che, al di là della specificità della sua traiettoria, Fatah vive la crisi dei soggetti storici della militanza politica, destinato, in tutta probabilità, a seguire fino alla fine la traiettoria discendente che contraddistingue tutti i partiti che sono nati e cresciuti all’ombra del bipolarismo. Cosa ne verrà dopo, e per mano di chi è, in fondo, il gran quesito che si registra dopo la fine di un congresso spesso latitante riguardo ai veri problemi dei palestinesi.
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