Non è tutto oro quel che luccica. Il 3 marzo scorso, l'elettorato svizzero ha votato un’iniziativa popolare di revisione costituzionale tesa a togliere ai consigli di amministrazione delle società anonime quotate il potere di fissare gli stipendi dei manager, per trasferirlo alle assemblee degli azionisti. Il successo è stato netto: il 67,9% dei votanti (il dato rappresenta circa il 31% dell'elettorato) si è espresso a favore dell'iniziativa, e, dato piuttosto raro, si sono espressi a favore anche tutti i cantoni, il cui risultato elettorale deve essere computato singolarmente nelle ipotesi di revisione costituzionale. Con ciò, entro un anno dall’accettazione del comma 3 dell’art. 95 da parte del popolo e dei cantoni, la Costituzione svizzera avrà una nuova disposizione, che assegna alle assemblee degli azionisti il potere di determinare gli stipendi dei manager delle società anonime quotate. La stessa disposizione pone anche alcuni divieti, tra cui quello di attribuire bonus di vario tipo come retribuzioni anticipate, premi per acquisizioni e vendite, contratti supplementari di consulenza, ecc.
Il voto svizzero offre l'occasione per porsi più di un interrogativo, posto che il problema della forbice (eccessiva) tra stipendi della dirigenza e stipendi dei dipendenti è, in questi tempi di crisi, tutt'altro che limitato al caso svizzero.
Come mai, primo interrogativo, un’iniziativa di questo tenore ha avuto un così largo successo in un Paese ancora fortemente ancorato al modello liberista? Nulla sapendo, infatti, un’iniziativa del genere la si collocherebbe a sinistra, mentre il suo promotore, Thomas Minder, rappresentante del cantone di Sciaffusa al Consiglio degli Stati (la seconda Camera federale), è posizionato dalla parte opposta dell'arco parlamentare. La risposta è abbastanza scontata. Negli ultimi anni i dirigenti di varie importanti società hanno tirato un po' troppo, per così dire, la corda. Bastano tre esempi: tra essi, il più noto in Italia è il caso di Daniel Vasella, presidente dimissionario di Novartis la cui liquidazione ammonta a 72 milioni di franchi (quasi 60 milioni di euro); da ricordare sono poi Mario Corti ultimo manager di Swissair prima del fallimento e Marcel Ospel, prima amministratore delegato (dal 1999 al 2001) e poi presidente del Cda di Ubs. Al primo si può attribuire, nonostante i lauti compensi, buona parte della responsabilità del fallimento di Swissair nel 1992; al secondo vanno invece ascritti i pessimi risultati di Ubs nell'altrettanto pessima gestione durante la crisi Usa dei titoli subprime. Questi ultimi due esempi hanno un tratto in comune: la dissociazione tra i risultati delle società e gli stipendi elargiti ai due manager. Nel caso di Swissair vi è in più l'aggravante che il cattivo risultato ha anche costretto lo Stato (la Confederazione, direbbero in Svizzera), a un tentativo di salvataggio con denaro pubblico, tentativo peraltro fallito. Di fronte a tutto ciò si capisce perché abbia fatto presa sull’opinione pubblica un’iniziativa come quella votata in Svizzera lo scorso 3 marzo.
Secondo interrogativo. La soluzione adottata è adeguata rispetto ai fini che intende perseguire? Ammetto che rispondere a questa domanda è compito più dell'economista-aziendalista che del costituzionalista-comparatista, categoria, quest'ultima, alla quale appartengo. Mi sorge però un dubbio. Come mai l'iniziativa, tanto gradita all'elettorato, era altrettanto poco gradita alle istituzioni e all'establishment economico? Talmente poco gradita da indurre il Consiglio federale (l'esecutivo) a esortare al voto contrario, e l'Assemblea federale (il legislativo) ad approvare un contro-progetto che sarebbe entrato in vigore in caso di esito negativo della consultazione. Forse il motivo va cercato in un fraintendimento degli interessi in gioco. In effetti, il successo dell'iniziativa poggia su una supposizione: che gli interessi delle persone indignate per gli eccessi dei manager coincida con gli interessi degli azionisti, sui quali è stato trasferito il potere di fissare le retribuzioni dei dirigenti. Non è detto, però, che questa coincidenza esista davvero. In fondo, gli azionisti pretendono dai manager una cosa molto semplice, ovvero l'incremento del valore delle proprie azioni, e per ottenere questo risultato potrebbero anche essere disposti a pagar loro lauti stipendi. Paradossalmente, questo trasferimento di competenze potrebbe addirittura favorire giochi spregiudicati da parte dei grossi azionisti. Sia chiaro, non voglio dire che lo strumento adottato sull'onda emotiva sia inadeguato. Mi limito a sottolineare che esistono dei punti critici, i quali erano stati da più parti messi in evidenza prima del voto.
Tutto ciò porta a un terzo e ultimo interrogativo. Perché la stampa italiana ha riportato con tanta imprecisione la notizia del voto svizzero del 3 marzo scorso? In particolare, perché si è posto l'accento sulle luci dell'iniziativa lasciando a margine le ombre? "La Svizzera mette un tetto agli stipendi dei manager"; “La Svizzera approva il referendum: sì al tetto per i super-stipendi dei manager"; "La Svizzera dice basta ai super-bonus. È legge il tetto a stipendi per manager". Sono, questi, tre titoli di altrettante prestigiose testate nazionali (nell'ordine, “La Stampa”, “la Repubblica”, “Il Corriere della sera”). Ci sono varie imprecisioni da segnalare.
Primo – e non è uno sterile tecnicismo da costituzionalista – non si tratta di un referendum ma di un’iniziativa popolare di revisione costituzionale. In Svizzera il referendum è sempre sospensivo, cioè mira a dare al corpo elettorale il potere di decidere se un atto adottato dal Parlamento possa entrare o meno in vigore, ed è facoltativo o obbligatorio a seconda degli atti su cui incide. L'iniziativa è altra cosa. Raccogliendo un certo numero di firme è possibile chiedere la revisione della Costituzione mediante un’iniziativa strutturata o generica. In questo secondo caso sono le Camere a dover poi redigere il progetto definitivo. La distinzione tra referendum e iniziativa è importante. Nel caso dell'iniziativa, infatti, è data facoltà al Parlamento di approvare un contro-progetto. Si tratta di un meccanismo che permette la convivenza tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa, cosa che, contrariamente a quanto si pensi da noi, non è così semplice realizzare.
Secondo, non si tratta di una legge, ma di una revisione costituzionale. In Svizzera, va detto, non esiste l'iniziativa popolare di legge ordinaria, ma solo quella di revisione costituzionale. Per questo motivo, ogni istanza di "rinnovamento" che provenga dal basso può trovare concretizzazione solo in un nuovo articolo della Costituzione o nella revisione della stessa. Ciò rappresenta un limite della democrazia diretta, perché può succedere che sull'onda del populismo la Costituzione venga modificata senza un’accurata riflessione sulle conseguenze. Il divieto di costruire Minareti, ad esempio, introdotto nel 2009 nella Costituzione Svizzera, è emblematico. Non pone esso infatti la Svizzera in una difficile posizione con riguardo agli obblighi derivanti alla stessa dalla Cedu, di cui è firmataria?
Terza, e a mio parere più grave, imprecisione: l'iniziativa non ha fissato un tetto agli stipendi dei manager, ma ha solo trasferito il potere di fissarne l'ammontare dal Cda all'assemblea degli azionisti. Certo, il titolo serve a catturare l'attenzione, per cui si spiega la tendenza a “spararle grosse”; si fa sempre a tempo, poi, a essere più precisi nei contenuti. Il problema, però, è che anche i contenuti non sono così accurati, almeno nei casi che ho citato. Tutto questo mi porta a credere che ci sia un certo provincialismo nel guardare a ciò che succede fuori dai nostri confini, provincialismo che fa sempre scorgere il luccichio dell'oro anche dove non è detto che ci sia il nobile metallo.
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