Minareti e Colonnelli. Nel maggio di tre anni fa un gruppo di deputati svizzeri dell' Unione Democratica di Centro e dell'Unione Democratica Federale (il cosiddetto “comitato di Egerkingen”) ha promosso una iniziativa referendaria popolare federale per un bando costituzionale alla costruzione di minareti. Per inciso, il territorio svizzero non ne è invaso. Quelli presenti attualmente sono quattro: le moschee di Zurigo, Ginevra, Winterthur e Wagen Bei Olten. La controversia, sorta in seguito alla progettazione di nuovi minareti in tre località della Svizzera tedesca, ha portato all’iniziativa referendaria svoltasi il 29 novembre scorso, che ha proposto ai cittadini elvetici l’inserimento di un emendamento all’art. 72 della Costituzione della Confederazione Svizzera, prevedendo esplicitamente il divieto di erigere minareti. L’esito referendario, nonostante la contrarietà del parlamento federale svizzero, del governo federale e di larga parte dei partiti politici svizzeri (a cominciare dai Verdi), ha visto prevalere nettamente il «sì», con il 57,5% dei consensi. La sorpresa a caldo è stata grande. Soprattutto sul Vecchio continente. Ne è nato un grande dibattito, accompagnato dagli appelli di Amnesty International e delle Ong di mezza Europa. Particolarmente rumorosa è stata la protesta delle comunità musulmane elvetiche: il presidente del coordinamento delle organizzazioni islamiche in Svizzera, Farhad Afshar, ha giudicato «indegno» l’esito della consultazione, accusando l’intera comunità politica svizzera di non aver preso veramente sul serio la campagna referendaria. Dal canto suo, a pochi giorni dall’apertura delle urne, il governo elvetico, visibilmente imbarazzato per le critiche provenienti dalla comunità internazionale, si è affrettato a ribadire ciò che in realtà era scontato, e cioè che: «l’esito della votazione non ha effetto sui quattro minareti già esistenti e l’edificazione di moschee continua a essere possibile. Anche in futuro in Svizzera i musulmani potranno quindi coltivare il proprio credo religioso praticandolo individualmente, o in comunità».

Nel giro di qualche settimana, con l’arrivo del Natale, la polemica si è progressivamente assopita nei network e sui giornali svizzeri. Almeno fino alla fine di febbraio, quando il colonnello Gheddafi ha improvvisamente riaperto le ostilità lanciando una “fatwa” personale contro il governo elvetico, definendo Berna “miscredente” e “apostata” per aver negato la possibilità di costruire nuovi minareti sul suolo svizzero. L’attacco del leader libico, peraltro a “scoppio ritardato” rispetto alla consultazione elettorale svizzera, si inserisce all’interno del contenzioso tra Berna e Tripoli nato dal turbolento arresto a Ginevra nel luglio 2008, per maltrattamenti nei confronti di due cameriere, di Hannibal Gheddafi, trentaduenne figlio del colonnello. Come ritorsione, le autorità libiche, nonostante il tentativo di mediazione del ministro degli Esteri svizzero, Micheline Calmy Rey, hanno preso drastiche misure di rappresaglia: ritiro dell’ambasciatore libico in Svizzera, riduzione dei collegamenti aerei tra i due paesi, ordine di chiusura per alcune aziende svizzere e, da ultimo, sospensione di visti ai cittadini svizzeri. L’ultimo a farne le spese è stato un imprenditore elvetico, Max Goeldi, che lo scorso 23 febbraio si è costituito alle autorità libiche – dopo essere rimasto bloccato dal luglio 2008 nell’ambasciata svizzera di Tripoli – per scontare quattro mesi di reclusione per “soggiorno illegale” in Libia. In questa annosa vicenda, in cui la polemica religiosa nasconde trame e intrecci di natura economica, l’Ue sta avviando una tardiva mediazione con il ministro degli Esteri di Madrid (che garantisce la presidenza di turno nel primo semestre del 2010), Miguel Angel Moratinos, che ha fissato una serie di incontri tra i capi delle diplomazie dei due paesi coinvolti, Micheline Calmy Rey e Mousa Kousa, nel tentativo di venire a capo di una situazione politico-diplomatica piuttosto grottesca.