Rimandati a ottobre. Il Consiglio affari generali che si è riunito il 25 giugno in Lussemburgo ha deciso di aprire il capitolo negoziale numero 22 – quello sulle politiche regionali – con la Turchia; ma la relativa conferenza intergovernativa insieme ai rappresentanti di Ankara non si terrà subito: bisognerà aspettare la presentazione dell'annuale rapporto della Commissione sui progressi nell'iter di adesione – a ottobre, per l'appunto – e la successiva “conferma” da parte del Consiglio, così come annunciato nel comunicato ufficiale della presidenza irlandese.
Si tratta di una decisione irrituale, che riflette il compromesso fortemente voluto – e poi ottenuto – dai ministri degli Esteri tedesco e turco, Guido Westerwelle e Ahmet Davutoğlu: per superare la crisi diplomatica che ha coinvolto in prima persona il cancelliere Angela Merkel e il ministro per gli Affari europei Egemen Bağış, la prima particolarmente dura nel criticare l'intervento della polizia nello sgombro del parco Gezi e il secondo pronto a denunciare ragioni elettoralistiche, dato che in Germania si vota a settembre. La minaccia concreta era quella di un veto tedesco, con l'appoggio olandese e austriaco: un veto che avrebbe provocato – in un contesto già difficile, nei rapporti tra Turchia ed Eu – un distacco forse irreversibile, dalle conseguenze politiche ed economiche disastrose. Tutto ciò dopo che l'elezione all'Eliseo di François Hollande aveva portato alla revoca del pre-esistente veto francese – di natura populistica - sul capitolo 22 (ma ci sono altri 4 capitoli bloccati da Parigi).
Westerwelle, l'anima liberale del governo tedesco, ha da sempre una posizione diversificata rispetto a quella della Cdu: vuole fortemente la Turchia in Europa, contesta apertamente i tentativi di offrire ad Ankara una “partnership privilegiata” e non la membership piena – eventualità giudicata altamente offensiva dalla controparte, anche perché in violazione degli accordi. Viceversa, il partito cristiano-democratico tedesco ha una posizione ostile e basata su di una presunta incompatibilità culturale: gli accadimenti delle ultime due settimane sono stati semplicemente un pretesto per ribadirla una volta di più. Il suo omologo Davutoğlu ha apprezzato e ringraziato, menzionando in conferenza stampa anche il sostegno della Svezia e dell'Italia; si è però dichiarato soddisfatto solo a metà per un “passo inadeguato anche se nella giusta direzione”: e ha ribadito la volontà turca di confrontarsi quanto prima anche coi capitoli 23 e 24 sui diritti e le libertà fondamentali, nel quadro di una “visione strategica che ha l'adesione all'Ue come obiettivo prioritario”.
Capitoli che, se effettivamente aperti, darebbero a Bruxelles maggiore potere d'intervento nel processo di transizione della Turchia – da regime autoritario a democrazia avanzata – ancora incompiuto. E' esattamente la posizione espressa per il nostro Paese dal ministro Bonino: “avremmo dovuto aprire da tempo anche i capitoli 23 e 24 […], sarebbe stato un modo più efficace per influire sulle politiche del governo e dare un segnale a coloro che manifestano per i loro diritti”. Adesso Ankara dispone di appena tre mesi per mettersi alle spalle piazza Taksim e per approvare nuove riforme, alle quali del resto già lavora da tempo: ad esempio quelle annunciate sulla pesantissima legislazione anti-terrorismo, nel contesto del processo di pace coi curdi. Il rapporto di ottobre sarà un vero e proprio esame da riparazione; l'Europa chiede più incisività, la Merkel ha fatto esplicitamente capire che sarà inflessibile: “la libertà di dimostrare, la libertà di opinione, lo stato di diritto e la libertà religiosa sono valori non negoziabili”. Per riavviare in modo decisivo i negoziati sarebbe d'aiuto – da qui a ottobre – anche un'altra iniziativa da parte europea, invocata da politici, imprenditori e intellettuali turchi: liberalizzare il regime dei visti, che per i cittadini turchi è al momento discriminatorio e penalizzante e che viene percepito come prova di cattiva fede – il Club cristiano che vuol tenere fuori i musulmani – nutrita di pregiudizi etnici e religiosi.
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