Il 6 agosto 1959 don Giuseppe De Luca, dotto prete romano al centro di molti circuiti intellettuali e politici, provò a descrivere in una lettera a Montini, espulso dalla curia e confinato a Milano nel momento più torbido del pontificato pacelliano, il clima che si respirava attorno a papa Giovanni, già a pochi mesi dalla sua elezione: “La Roma che tu conosci e dalla quale fosti esiliato non accenna a mutare come pareva che dovesse pur essere alla fine. Il cerchio dei vecchi avvoltoi, dopo il primo spavento, torna. Lentamente, ma torna. E torna con sete di nuovi strazi, di nuove vendette. Intorno al carum caput [papa Giovanni] quel macabro cerchio si stringe. Si è ricomposto, certamente”.
Cito questa lettera del 6 agosto 1959, scritta a dieci mesi dal conclave che aveva portato Roncalli sul trono di Pietro, perché mi pare un utile antidoto agli stereotipi filobergogliani e antibergogliani che riappaiono ogni anno – solitamente nella ricorrenza del conclave del marzo 2013 – e si dispongono pigramente sul quadrante della prevedibilità.
Da un lato c’è lo stucchevole papismo secolarizzato: quello del Francesco “rivoluzionario” gradito ai (sedicenti) atei che colgono la “modernità” che con il papa gesuita sarebbe giunta sul trono di Pietro proprio quando quella cultura ha esaurito la sua spinta nel passaggio dal mondo post-moderno al post-globale. Lo si riconosce perché è quello che vede ovunque atti “senza precedenti”: fosse una intervista ai giornali (la prima è di Leone XIII) o l’uso dei social (Pio IX fece un quotidiano e Pio XI una radio), la telefonata inattesa (mai quanto quella di Pio XII al Capranica dopo lo scandalo Cippico che aveva al centro di una ruberia un allievo del famoso collegio romano) o perfino l'indulgenza plenaria (riesumata a distanza di sicurezza dall’anniversario di Lutero). E ovunque questo papismo agnostico vede i segni di una colluttazione coi “conservatori” in cui il papa-Rambo assesterebbe colpi tremendi, se mai solo perché sta predicando su un episodio evangelico di cui non si colgono le sfumature.
Una caricatura del papa e del papato che in taluni aspetti ripete formule che usano anche però anche gli inquisitori di Francesco, che occupano il punto diametralmente opposto: sono i papisti del papa di ieri, che accusano Francesco di eresia, ora usando la propria voce ora dando corpo mediatico al punto centrale della teologia ratzingeriana (l'antecedenza della Chiesa universale sulle chiese particolari) e dell'ideologia ratzingeriana (ogni male, Concilio incluso, viene da ciò che ha preparato il '68 e dal '68, e chi lo dice è un profeta perseguitato politico, non un conservatore legittimamene affezionato ad un patrimonio ideologico e teologico di reazionario). Nemmeno loro sono molto originali, se fu Indro Montanelli nel 1962 a dar voce ai reazionari antironcalliani che cercavano di vestirlo da modernista sfuggito alla repressione d'inizio secolo; e se si pensa che il mondo lefebvriano ha dichiarato eretici e usurpatori del trono di Pietro tutti i papi dal Concilio in qua. Gli inquisitori di Bergoglio sono parte di una piccola tradizione di allarmismo dottrinale, ma sono chiassosi, e dunque nella vuota campana dei social i loro rintocchi angosciosi e angosciati da fobie tutte da studiare si sentono bene.
Su un altro lato ci sono i pretoriani timidi: quelli che per dire che il papa non è eretico garantiscono e giurano che lui non tocca mai la “dottrina”, ma solo le dimensioni “pastorali”. E dimostrano così una delle ragioni della vulnerabilità del papato: perché si vede che lo zelo di chi difende lo slancio kerygmatico di Francesco ha spesso una concezione fissista e materialista della "dottrina", immaginata come un meteorite arroventato e ideologico; questa concezione che non è difficile confondere con il cristianesimo non è però quella che rinvigorirà la Chiesa all'indomani dell'inutile e sfibrante corpo a corpo con la modernità. E inoltre quella posizione mostra di avere una comprensione volgarmente “applicativa” della "pastorale" che invece – era il punto centrale del Vaticano II secondo papa Giovanni – non è una decodifica pratica di verità immobili, ma il modo in cui lo Spirito conduce la Chiesa a scoprire e riscoprire istanze evangeliche cristallizzate o rimaste inerti.
Da ultimo, però, c’è l’angoletto dove si affolleranno i saccenti delusi: quelli che dovrebbero aver capito che per un gesuita della generazione Arrupe (a me capitò di scriverlo nel 2013) la "riforma a norme invariate" e la cooptazione dei nemici sono una mentalità, non una strategia, da ricondurre a una frenesia decifratoria senza profondità storica. Quelli che sognavano uno scoop a semestre, adesso vedono il pontificato da cui si aspettavano cose che non sono accadute sfinito, o perlomeno in stallo. Mentre forse sono in stallo solo le attese mal sagomate, che hanno goduto del brivido di trovarsi dalla parte del potere e hanno dovuto constatare che quel potere non compiace chi lo ha lodato.
Certo papa Francesco non ha dato statura collegiale al “gruppo” dei cardinali che ha chiamato come “auxilium” nel governo della Chiesa universale; ha firmato una riforma del Sinodo dei vescovi in cui si dice che è “soggetto” al papa, con una espressione così sgrammaticata che nemmeno Pio IX avrebbe usato; sul sacerdozio uxorato ha recepito una deliberazione sinodale senza una "adprobatio" che avrebbe intestato a Roma e non alle chiese locali l’inizio di un percorso che può essere rinviato solo di mesi, fosse anche mille mesi; sul ministero femminile ha tirato il freno a mano a ordinazioni diaconali che la Chiesa di Roma conosceva dai tempi apostolici; sul Sinodo italiano ha fatto stop-and-go, o meglio go-and-stop in attesa di una maturità dei vescovi cui doveva preoccuparsi quando li sceglieva, e non dopo avere messo gli afoni sulle cattedre della Chiesa di cui è Primate. Dunque siamo davanti a un pontificato di cui fare il bilancio e decretare lo “stallo”?
Direi di no: anche perché lo stallo (“condizione d’attesa e d’inazione forzata”) non si saprebbe dire se comprenda o si manifesti in altri atti. Il documento firmato con il patriarca di Mosca Kyril e la dichiarazione sottoscritta con al Tayyeb, imam della grande moschea di Al-Azhar – atti in cui ha accettato descrizioni ultrareazionarie della modernità e del pluralismo, pur di aprire un canale di contatto coni grandi mondi dell’ortodossia russa e dell’islam sunnita –, stanno nello stallo o lo precedono? L’accordo “provvisional” con la Repubblica popolare cinese riguarda la diplomazia vaticana o è parte di un processo in cui è la Chiesa cinese e la sua voce nella communio ecclesiarum che costituisce l’orizzonte? E la divisione fra sedicenti conservatori (che in realtà sono spesso una eversione di destra) e sedicenti progressisti (che in realtà hanno nostalgia di quel dispotismo riformatore che Paolo VI voleva avere e non ebbe oscillando fra l'uno e l'altro) è davvero diversa oggi dai tempi di Suenens e Siri, di Martini e Biffi, di Bernardin e Law?
No. E dunque siamo semplicemente nel pontificato di un uomo anziano (degli otto predecessori morti sul trono di Pietro solo Wojtyła era vivo alla sua età), che deve negoziare con le sue fragilità e con quei tratti del suo carattere brusco che lui stesso ha spesso descritto; di un vescovo che almeno fino alla scomparsa del predecessore non potrà rinunciare al ministero petrino, e che sa che se gli dovesse capitare qualcosa la sopravvivenza dell’emerito sarà usata come e più di come viene usata oggi la sua firma; di un uomo che appena eletto nel 2013 ha voluto fuggire la solitudine umana dell’Appartamento pontificio, e che però non si è fatto intimidire dalla solitudine istituzionale che lo ha seguito nella nuova corte di santa Marta; che ha sacrificato sia amici fedeli sia i più leali dei dissenzienti, e invece ha rinviato la sanzione di chi lo ha ingannato e beffato.
Eppure Bergoglio rimane un cristiano militante, nella cui predicazione c’è una forza kerygmatica straordinaria e autentica (e dunque diseguale), che non si esprime per meritarsi l’adulazione di qualcuno dei suoi ammiratori o riconquistare quella di chi lo considera un mancato super-papa, ma per una urgenza interiore che cerca la pace della fede. Anche se il suo cristianesimo stimola gli avvoltoi del prossimo conclave e forse qualcuno di quello passato, Francesco non è l’uomo che dichiarerà aperta la stagione della caccia agli avvoltoi: è il vescovo di Roma in una Chiesa nella prova in un modo nella prova, dove le antiche paure delle litanie – a peste, fame, et bello, libera nos Domine – si presentano a un mondo che non sa più nemmeno ricordare le colpe inconfessate che darebbero un senso al castigo e nel quale, quando si parlerà di lui al passato, qualcuno dirà ancora "nonne cor nostrum ardens erat in nobis?" e forse si chiederà cosa non ha fatto non il papa di allora, ma la Chiesa di allora.
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