L’innocenza dell’autunno arabo. Sono bastati i quattordici minuti del trailer di una pellicola intitolata The Innocence of Muslims, firmata nel 2011 da un regista, Sam Bacile, che all’anagrafe risulta essere Nakoula Bassily Nakoula, perché i precari equilibri nei rapporti tra Stati Uniti e Paesi del Medioriente subissero una scossa tellurica. Il film, che vorrebbe pronunciarsi contro “le ipocrisie” islamiche, è una sorta di B-movie, infarcito di gratuite provocazioni rivolte contro le credenze religiose e le tradizioni coraniche. Sono messi in scena quadri della vita di Maometto, dipinto nel medesimo tempo come un donnaiolo, un omosessuale e un pedofilo. I suoi seguaci sono raffigurati alla stregua di selvaggi, bramosi di corpi femminili e ricchezze materiali. Un po’ tutti i fantasmi della perversione sessuale ricadono sulla raffigurazione del profeta, insieme all’irrisione per la religione musulmana. Mentre il valore artistico del film è pari a zero e le incongruenze di contenuto non si contano, la sceneggiatura e la regia sono così ridicole da risultare inesistenti. Gli effetti speciali, se così li si vuole chiamare, infine, rasentano l’assurdo. Sta di fatto che il passaggio di alcuni suoi spezzoni, tradotti in arabo, sul web ha dato fuoco alle polveri di un astio che da tempo covava. La mappa delle proteste, immediatamente tradottesi in tumulti, si è da subito estesa, comprendendo molti Paesi: dalla Libia, dove l’ambasciatore americano Christopher Stevens, due marines e un funzionario consolare hanno perso la vita, al Bangladesh, passando per la Tunisia, lo Yemen, la Giordania, l’Egitto, la striscia di Gaza, Gerusalemme, la Nigeria, il Sudan ma anche l’Indonesia. Obiettivo le sedi diplomatiche statunitensi ma anche le autorità locali, accusate di non avere fatto nulla contro quella che è ritenuta un’inaudita offesa nei confronti del mondo musulmano.
Che un gesto o un singolo episodio, in sé irrilevante, possano costituire il pretesto per fare esplodere le piazze mediorientali non è una novità. Le angoscianti vicende di questi giorni si inseriscono in un lungo rosario di violenze, che da quasi trent’anni accompagnano gli agitati rapporti tra l’Occidente atlantico e l’Oriente arabo-musulmano. La data indice è il 14 febbraio 1989, quando l’ayatollah Khomeini, massima autorità spirituale della Repubblica islamica dell’Iran, emise una fatwa, ossia un responso religioso, contro l’autore dei Versetti satanici, un libro che parlava di Maometto. Per Salman Rushdie iniziò così una lunga peregrinazione. Anche in quel caso le sollevazioni popolari non si fecero attendere. Da quel momento in poi fu chiaro che il ricorso allo sdegno popolare era uno strumento di mobilitazione fondamentale nella difficile dialettica geopolitica tra sciiti e sunniti e, in immediato riflesso, tra musulmani e non musulmani. Non a caso seguirono altri cruenti episodi tra i quali, per citare gli ultimi, l’assassinio ad Amsterdam nel 2004 di Theo van Gogh, autore del cortometraggio Submission, o le dodici vignette satiriche su Maometto comparse l’anno successivo alla morte del regista su alcune testate danesi e norvegesi.
Nel caso più recente del film di incerta paternità, al momento paiono plausibili due ipotesi. Da una parte c’è la provocazione, in tutta probabilità studiata a tavolino da alcuni gruppi fondamentalisti di area evangelica, presenti negli Stati Uniti e fortemente coinvolti nel tentativo di mettere in difficoltà il presidente Obama, prossimo alla prova elettorale. Non sono del tutto estranee a quest’area figure note sulla scena politica e culturale americana, come Daniel Pipes e il Middle east forum di Filadelfia, David Horowitz, direttore di "Frontpage", una testata che dichiara di opporsi all’“islamo-fascismo”, l’avvocato David Yerushalmi, che vive nell’insediamento ebraico di Ma’ale Adumim in Cisgiordania, l’attivista Pamela Geller, che è l’anima del gruppo Stop islamization of America, il Center for Security Policy, il Clarion Fund e il miliardario Sheldon Adelson. Il Leitmotiv è il sostegno alla politica di “colonizzazione” israeliana delle aree palestinesi. Dall’altra parte c’è la lotta intestina in corso tra i Fratelli musulmani, l’organizzazione che sembra meglio incassare i risultati politici della primavera araba, e i gruppi dell’arzigogolata galassia jihadista, che puntano a destabilizzare i Paesi maghrebini e dell’Africa centrale.
Una pellicola già vista, quella che si sta proiettando sugli schermi mediterranei, e che non promette un “happy end”.
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