Benedetto XVI ha incarnato, più di ogni altro, le ambivalenze e tensioni interne al Vaticano II – sia come evento della collegialità episcopale che come corpo testuale normativo per la Chiesa cattolica. Il Concilio, infatti, lasciava (e lascia) aperte più opzioni sul modo in cui la Chiesa avrebbe dovuto risolvere la questione della sua presenza nella società moderna.
Ratzinger maturò, quasi immediatamente dopo la conclusione del Vaticano II, la convinzione che la via da percorrere per la Chiesa cattolica fosse quella di una versione aggiornata della cristianità di cui la modernità occidentale aveva dichiarato il tramonto definitivo. A fare da ponte tra un cattolicesimo anti-moderno e uno modernizzato egli poneva il principio della legge naturale – quale istanza comune sia alla fede che alla ragione secolare.
In questo modo, pensava di riuscire ad assicurare all’istituzione magisteriale della Chiesa una sorta di primato sull’interpretazione del mondo anche a fronte di una strutturazione democratica della società umana. Non solo la libertà delle persone e dei sistemi civili di convivenza pubblica sarebbero così rimasti sotto la tutela della Chiesa cattolica, quale giusta interprete della legge naturale, ma anche la partecipazione e presenza della Chiesa stessa all’interno delle dinamiche civili della contemporaneità.
Emblematica di questa visione di relazione asimmetrica del rapporto fra Chiesa e mondo moderno fu la battaglia che Ratzinger ingaggiò a fine degli anni Novanta, insieme a Giovanni Paolo II, per la fuoriuscita della Chiesa cattolica tedesca dal sistema statale di consulenza obbligatoria in vista di un eventuale aborto. Il fatto che i centri della Caritas tedesca rilasciassero un certificato che attestava l’avvenuta consulenza veniva visto come una inaccettabile partecipazione diretta della Chiesa locale all’aborto.
In nome della purezza dell’affermazione di fede, basata appunto sulle evidenze della legge naturale, si obbligò la Chiesa tedesca a rescindere questa commistione mondana – abbandonando sostanzialmente al loro destino tutte le donne che avrebbero potuto far conto su una testimonianza a favore della vita nascente, e sentire una vicinanza ecclesiale concreta ed effettiva al loro vissuto.
Intorno a questa articolazione di una neo-cristianità modernizzata si andò cristallizzando il programma del papato di Benedetto XV
Intorno a questa articolazione di una neo-cristianità modernizzata, che quando non riusciva a governare le cose del mondo si ritirava da esse pur di affermare una purezza intransigente, si andò cristallizzando anche il programma del papato di Benedetto XVI. Volto, principalmente, a rimediare i danni interni alla Chiesa cattolica causati da un’eccessiva enfatizzazione del Vaticano II come momento di rottura del monolitismo della Chiesa cattolica. Ed è sempre in quest’ottica che si deve leggere la direzione del suo pontificato a livello di relazioni ecumeniche: che scavalcava il dialogo con le Chiese della Riforma per prediligere l’interlocuzione con la Chiesa ortodossa – appunto, in quanto forma della cristianità resistente all’introiezione dei grandi paradigmi della modernità occidentale.
Per la reintegrazione dei ceti cattolici più lontani dai principi del Vaticano II Benedetto XVI ha fatto letteralmente di tutto: dalla riattivazione della liturgia tridentina al decadimento della scomunica dei vescovi lefebvriani; dalla dichiarazione esplicita dei valori non negoziabili nella vita politica all’affermazione del principio di continuità della tradizione cattolica (immune a ogni prassi conciliare).
Con la sua fine il pontificato di Benedetto XVI legittima del tutto quello di Francesco – proprio nell’opposizione delle loro prospettive e provenienze
Le dimissioni di Benedetto XVI furono il riconoscimento della non riuscita definitiva del programma da lui immaginato e del posizionamento della Chiesa cattolica nella contemporaneità da lui auspicato. Quelle dimissioni indirizzavano autorevolmente il governo della Chiesa a portare la barca di Pietro verso mari e destinazioni diverse da quelle da lui solcate. Ed è in questo senso che con la sua fine il pontificato di Benedetto XVI legittima del tutto quello di Francesco – proprio nell’opposizione delle loro prospettive e provenienze.
Ed è nel paradosso di questa legittimazione che si nasconde lo scoglio contro il quale si è incagliata la navigazione di Benedetto XVI a cavallo tra i due secoli: quello di una continuità (del magistero, della tradizione, del cristianesimo) che non fa i conti con le irruzioni della storia, che è proprio il modo in cui il Dio di Gesù si annuncia nella vita quotidiana del mondo e delle persone. Non c’è dogma, asserto di fede, o ragione teologica che non siano lavorate dalla storia in cui sono immerse e di cui sono imbevute.
Quando Benedetto XVI ha compreso di essere il rappresentante di un programma nato obsoleto per condurre la Chiesa cattolica nella storia degli uomini e delle donne ha fatto un passo indietro, perché non disponeva delle abilità necessarie per rispondere alle esigenze del Vangelo che passavano in una contemporaneità dalla quale si sentiva estraneo e distante. Segno di un momento di straordinaria lucidità, dove la buona e riuscita destinazione della comunità dei credenti ha preso il sopravvento sulle convinzioni personali più intime.
Con la morte di Benedetto XVI muore anche il sogno, coltivato da molti nella Chiesa cattolica, di una versione ammodernata di quello che essa è stata nell’epoca tridentina
Con la morte di Benedetto XVI muore anche il sogno, coltivato da molti nella Chiesa cattolica, di una versione ammodernata di quello che essa è stata nell’epoca tridentina – fino alla sua consunzione in un assolutismo che non funziona più neanche all’interno di essa. Non si tratta solo di elaborare un lutto, ma anche di rispondere all’ingiunzione evangelica che risuona nella fine di questo sogno.
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