Il Generale e la polveriera balcanica. I tempi storici sono per definizione ambigui. A seconda dell’angolatura dal quale lo si guarda, il passato può apparire lontano o vicinissimo: questo è particolarmente vero per i Balcani di oggi e il loro rapporto con le guerre degli anni Novanta. Basta una notizia, pur attesissima, come l’arresto di Ratko Mladic, il comandante dell’esercito serbo-bosniaco durante le guerre jugoslave nella prima metà degli anni Novanta, per riaccendere passioni nazionaliste, riaprire antiche ferite, riportare in superficie memorie divise e delineare nuove possibili prospettive. Il nome di Mladic è legato soprattutto al più grave massacro avvenuto in Europa dalla seconda guerra mondiale: l’esecuzione di massa – l’11 luglio 1995 – di oltre 8000 musulmani che si erano rifugiati nell’enclave di Srebrenica, formalmente sotto la “protezione” delle Nazioni Unite. Tuttavia, l’intero progetto di “pulizia etnica” delle aree della Bosnia a maggioranza musulmana è riconducibile alle responsabilità militari di Mladic, a partire dall’assedio e dai bombardamenti di Sarajevo tra il 1992 e il ‘95.
Insieme alla recente condanna del generale croato Ante Gotovina, la cattura e il probabile processo di Mladić al Tribunale penale internazionale dell’Aja – tanto più in concomitanza con il prossimo anniversario della dissoluzione della Federazione jugoslava (con le dichiarazioni di indipendenza slovena e croata, il 25 giugno 1991) e dello scoppio delle successive guerre – offrono l’occasione di alcune riflessioni di carattere storico e politico. Infatti, si creano così le condizioni per un profondo ripensamento del recente passato nelle Repubbliche ex-jugoslave, a patto che si superino visioni fondate sulla vittimizzazione di sé e sulla demonizzazione dell’altro e che, al di là delle responsabilità individuali, si affrontino i nodi più profondi e complessi dei processi che condussero alle guerre civili in Croazia e in Bosnia-Erzegovina. Questo ripensamento chiama direttamente in causa il ruolo degli storici, ponendo la necessità di una riscrittura della storia che prenda criticamente le distanze dalle esigenze di costruzione delle identità nazionali.
D’altro canto, sul piano politico, la cattura o la condanna dei criminali di guerra, in ottemperanza alle richieste dell’Unione Europea, aprono nuovi possibili scenari per la Serbia e la Croazia, le quali si trovano di fronte ad un bivio importante, tra l’avvenire europeo e il passato nazionalista. La maggior parte delle classi dirigenti, a partire dai presidenti, il serbo Boris Tadic e il croato Ivo Josipovic, ha optato per un orientamento favorevole all’integrazione nell’UE. Nelle due società, invece, non mancano settori di opinione pubblica tesi al contempo a contestare l’Europa e a rivendicare l’eredità della guerra. Anzi, l’avversione per l’Europa è tanto più accesa quanto più questa significa, ai loro occhi, l’abbandono dei propri “eroi di guerra” e la “rinuncia” alla propria identità nazionale.
Non di meno, la disponibilità dei paesi ex-jugoslavi a fare i conti con le proprie responsabilità nelle guerre degli anni Novanta offre un’opportunità unica alla stessa Europa, a sua volta colpevole di un atteggiamento di indifferenza e impotenza verso quegli eventi (se non di complicità con i carnefici, in alcuni casi, come a Srebrenica). Sia pur in un difficile contesto di crisi economica generale, l’apertura all’integrazione dei paesi dell’ex-Jugoslavia consentirebbe all’Europa di ampliare l’area di stabilità politica, sottraendo i Balcani ai prevedibili rigurgiti di vecchi e nuovi nazionalismi e ancorando le loro fragili istituzioni democratiche ad un sistema più ampio di garanzie e controlli. In questo senso, il processo a Mladic, se non sarà ridotto ad un’inevitabile (ma sterile) retorica intorno alla condanna del “mostro balcanico”, potrebbe inaugurare una stagione nuova, capace di chiudere la sanguinosa pagina degli anni Novanta.
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