Il paese dei cedri alla guerra del voto. Le settimane che precedono le elezioni libanesi del 7 giugno sono state caratterizzate dalle notizie relativi ai numerosi arresti di presunte spie (tra i quali agenti di polizia ed ex ufficiali della sicurezza) che operavano nel paese per conto di Israele.
La notizia si inserisce all’interno di un quadro politico nazionale già piuttosto fragile. L’attuale governo di unità nazionale è il frutto degli accordi di Doha (Maggio 2008), raggiunti al termine dei gravi scontri che avevano gettato il paese sull’orlo di una nuova guerra civile. Hezbollah era riuscito a far riconoscere la propria struttura militare come “milizia delle resistenza”, evitandone così l’integrazione nei ranghi dell’esercito nazionale. Una vittoria per gli uomini del “Partito di Dio” che avevano precedentemente dato una chiara dimostrazione di forza nei combattimenti per le strade di Beirut Ovest dopo che l’esecutivo aveva tentato di smantellarne la rete di telecomunicazioni.
Il lento processo di “riconciliazione” nazionale ha visto, dopo gli accordi di Doha, la firma del “documento di Tripoli” (Settembre 2008), un memorandum di intesa tra i leader del partito sunnita e di quello alawita, che ha cercato di porre termine alle violenze avvenute nel nord del paese tra le rispettive milizie. L’accordo ha coinciso con gli interessi di Damasco, tesa a riaffermare il proprio ruolo di garante della stabilità, forte dalla recente riapertura di contatti diplomatici stabilita tra il presidente Assad e il suo omologo libanese Suleiman. Per quanto il “documento di Tripoli” non abbia fatto cessare definitivamente le violenze, la crisi politica è stata considerata conclusa quando il parlamento ha finalmente approvato la nuova legge elettorale che emenda quella del 1960 con alcune delicate modifiche, dettate da considerazioni demografiche, relative alla definizione delle circoscrizioni. L’accordo di Doha, che si fondava sulla triade “governo di unità nazionale - elezione del presidente - nuova legge elettorale” ha raggiunto così i suoi scopi immediati. Solo i prossimi mesi diranno se il futuro politico libanese sarà caratterizzato da stabilità e riconciliazione. Molto dipenderà proprio dall’esito che uscirà delle urne.
Due sono gli schieramenti principali che si contrappongono. Da una parte l’alleanza che comprende il Movimento per il Futuro (Mustaqbal) del figlio di Rafiq Hariri, Saad, e dell’attuale premier Siniora, le Falangi di Gemayel, i cristiani di Geagea e il Partito Socialista Progressista del druso Jumblatt. Dall’altra, una coalizione guidata da Hezbollah con gli sciiti di Amal e i cristiani del generale Aoun. Un confronto ideologico e sopratutto di potere che riflette schematicamente le due visioni principali nell’attuale situazione politica mediorentale. Un fronte “anti-siriano” e filo-occidentale, che gode del supporto di Washington e dei paesi sunniti della regione (Egitto e Arabia Saudita in testa), al quale si oppone l’alleanza guidata dal Partito di Dio, sostenuta da Siria ed Iran, che sembra essere leggermente favorita nelle previsioni elettorali, perchè considerata più vicina alle istanze popolari e reduce dalla “vittoriosa resistenza” alle forze israeliane. Il voto dei cristiani è considerato da più parti come il vero ago della bilancia della consultazione, il cui esito rimane fortemente incerto. Lo stesso Nasrallah, preoccupato di mostrare un volto moderato e consapevole delle lessons learnt della vittoria di Hamas e del suo successivo isolamento, ha già accennato alla possibilità di un nuovo governo di unità nazionale.
È in questo contesto che si colloca la presenza internazionale delle forze di UNIFIL (United Nations Interim Force in Lebanon) alle quali l’Italia fornisce il contributo più consistente. I difficili compiti della missione, dislocata a sud del fiume Litani, attengono all’assistenza delle forze armate libanesi, al monitoragggio del cessate-il-fuoco con Israele, alla cooperazione le autirità e istituzioni locali per l’assistenza e la ricostruzione. In questo ambito l’Italia fa leva in particolare sulla sua esperienza decennale nella la coperazione civile-militare (CIMIC) e nelle attviità di bonifica di ordigni inesplosi e mine risk education nelle scuole. Il focus sulla ricostruzione permette alla missione di “minimizzare” l’impatto della presenza militare sul territorio e di non farla percepire come l’ennesima occupazione straniera del suolo libanese. L’atteggimanto nazionale “morbido”, basato sul dialogo e sulla cooperazione, anche con Hezbollah, è stato oggetto di aspre critiche da parte sia di Israele che di alcuni paesi del contingente (in particolare la Spagna). Dobbiamo però considerare che la risoluzione 1701 ha “irrobustito” UNIFIL ma non l’ha trasformata in una forza di peace-enforcing. Date le limitazioni nel mandato si parla addirittura di “static-point”, anzichè di check-point, proprio perchè i caschi blu non possono fermare macchine sospette. Israele, che spesso ha accusato la missione di eccessiva arrendevolezza verso i gruppi armati libanesi, ne ha tratto al contempo sicuro beneficio, al termine di un conflitto che l’aveva vista in grave difficoltà dal punto di vista strategico.
Questo quadro, segnato da ripetute violazioni del cessate il fuoco da ambedue le parti, può naturalmente risentire del risultato delle elezioni, segnato da visioni contrapposte riguardo la struttura stesso dello stato: un’autorità centrale forte o un modello di entità statuale debole dominata da interessi particolari, milizie e gruppo armati. Il Libano sembra così riflettere i problemi dell’intero Medio Oriente, con attori regionali ed internazionali coinvolti direttamente nel confronto politico interno. Contemporaneamente l’incertezza del voto, fonte di possibile instabilità futura, rivela il singolare pluralismo politico libanese, in un’area spesso caratterizzata da consultazioni elettorali con esiti scontati.
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