Siamo davvero tutti libanesi? Dal 17 ottobre scorso l’intero Libano è percorso da continue manifestazioni di piazza che chiedono le dimissioni del governo e del Parlamento, eletto solo un anno fa, sull’onda di una crisi economica crescente. Camminando per le vie di Beirut e tra i suoi manifestanti ci si rende subito conto che l’adesione alle proteste è molto ampia e coinvolge tutti gli strati sociali. Dopo giorni di occupazioni di strade e piazze, il punto di svolta è arrivato il 25 ottobre con il discorso di Nasrallah, il capo politico di Hezbollah, che con un certo machiavellismo ha detto di “rispettare le proteste popolari”, ma al tempo stesso ha anche invitato i manifestanti a “lasciare i luoghi di incontro”, sostenendo che ormai le manifestazioni erano state infiltrate da forze straniere e dunque non più genuine.
Nasrallah si è fatto garante di obiettivi e tempistiche delle riforme annunciate il giorno prima dal presidente della Repubblica Aoun, che di fatto aveva rinviato al mittente le richieste di dimissione della piazza. I partigiani di Hezbollah hanno subito dopo attaccato alcuni centri delle manifestazioni, mentre l’esercito ha faticato a proteggere i manifestanti e al tempo stesso sta lentamente mediando per liberare le principali strade ancora bloccate. La situazione rimane tesa, appesa a un filo, e vi è il rischio che le manifestazioni, finora nel complesso pacifiche, degenerino in violenza settaria.
L’esercito ha mantenuto una posizione neutrale, ma è sempre più sottoposto a fortissime pressioni da parte dei vari gruppi politici, tanto più che a sua volta, e per sua stessa costituzione, non è immune dal sistema di spartizione delle cariche e delle posizioni di potere su base confessionale che interessa l’interno sistema amministrativo e politico libanese. Inoltre l’esercito, che negli scorsi anni è stato addestrato dalle truppe internazionali presenti nel Paese nell’ambito della missione Unifil, non avrebbe comunque la forza per opporsi all’altro esercito libanese, quello sciita di Hezbollah. Il fatto che Nasrallah abbia sconfessato le manifestazioni rivela d’altra parte il timore per un dissenso che ha intaccato per la prima volta anche parte della base di Hezbollah. Non sono mancate infatti manifestazioni anche nelle regioni del Sud, roccaforte del Partito di Dio. Il Libano pare non fare eccezione rispetto al resto del mondo arabo: l’esercizio di governo può logorare i partiti islamisti a Beirut come a Tunisi.
In Libano, come nel resto dei Paesi arabi durante gli ultimi anni, le proteste popolari sono state innescate da una crisi economica che si è trasformata in una crisi di sistema a danno soprattutto della classe media e dei giovani. Alla domanda: “Perché stai protestando?”, la risposta ricorrente è: “Per il futuro mio e dei miei figli”. Le manifestazioni hanno avuto un carattere a-partitico e proprio per questo hanno puntato a mettere in discussione le fondamenta dell’intero sistema politico, che si basa su un principio di ripartizione dei seggi parlamentari e delle cariche di governo in funzione delle diverse identità religiose e discende direttamente dalla logica del divide et impera del colonialismo europeo. Non a caso lo slogan “Siamo tutti libanesi” mira proprio a superare le divisioni confessionali della società e i loro riflessi su un sistema politico ed economico profondamente corrotto.
In questi giorni la folla che ha invaso Piazza dei Martiri, nel centro di Beirut (dove al tempo della guerra civile passava la linea del fuoco tra Beirut Est e Ovest), ha colmato idealmente e per la prima volta le divisioni del passato, inneggiando appunto all’unità dei libanesi. È dunque vero che le proteste mancano di una leadership politica, ma non per questo va sminuita la loro portata politica, proprio per aver pubblicamente messo fine alle lacerazioni della guerra civile e dato voce a una nuova generazione di libanesi.
Le manifestazioni collettive di questi giorni hanno preso possesso di alcuni spazi pubblici e hanno visto il susseguirsi notte e giorno di manifestanti che si sono dati la staffetta per animare perennemente la contestazione al regime e alle sue istituzioni. L’inneggiare a un Libano unito contro il sistema di governo fondato sulle divisioni lascia però sullo fondo in modo decisamente contraddittorio le disuguaglianze sociali e lo sfruttamento economico di chi libanese non è, ma vive nel Paese. A oggi il Libano ospita 1 milione e mezzo di siriani, oltre 180 mila palestinesi e un costante afflusso di lavoratori dal Corno d’Africa e dal Sud Est asiatico, contro una popolazione di quasi 6 milioni di persone, alla quale si deve aggiungere poco meno di 1 milione di libanesi all’estero. Il paradosso è quello di protestare contro un sistema economico e politico profondamente ineguale senza tener conto degli ultimi degli ultimi, ossia i lavoratori stranieri che guadagnano meno dei libanesi e con molti meno diritti. Non se ne parla poiché sono proprio questi lavoratori che sono in concorrenza con i giovani libanesi alla base della piramide di una società fortemente polarizzata, a tutto vantaggio di una élite di pochi ricchi o ricchissimi. Inoltre, i migranti e la loro possibile naturalizzazione resta un tabù politico, ancora prima che sociale, poiché farebbe immediatamente saltare il complesso equilibrio della politica fondata sulle comunità/identità religiose.
Nella stampa italiana e internazionale si è molto sottolineato l’aspetto della rivolta libanese, i blocchi e gli incendi per le strade, le vetrine in frantumi e, più in generale, l’immagine di un’esplosione incontrollata e irrazionale di rabbia. Se è innegabile che nelle prime ore delle proteste vi siano stati alcuni episodi di violenza (costati indirettamente la vita a due persone), è altrettanto innegabile che a ora le dimostrazioni hanno avuto un carattere eminentemente pacifico. Il problema è piuttosto nostro, nella nostra lettura delle transizioni politiche e sociali in corso nella regione (non solo in Libano) come qualcosa di intrinsecamente diverso da noi e dalla nostra società occidentale. Se in Francia si sciopera, in Libano si fa una rivolta, ma ci si dimentica così che a trasformare le manifestazioni violente dei primi momenti in una protesta strutturata e continua è stata la proclamazione dello sciopero generale di lunedì 21 ottobre: dunque nulla di irrazionale o esotico.
Di fronte alla complessità di una crisi politica e sociale alle porte dell’Europa, la nostra propensione è quella al rifiuto, lamentando l’irrazionalità dello svolgersi degli eventi, invece di interrogarci sulle cause. Forse la ragione del nostro costante voltarci da un’altra parte di fronte a eventi come quelli del Libano è proprio l’indicibile verità che crisi come questa non sono affatto così lontane e diverse dalla situazione di casa nostra. La crisi economica, la riduzione del potere d’acquisto dei salari delle classi medie, la forbice sociale crescente sono problemi mondiali che hanno portato in piazza anche i greci e i francesi, oltre ai libanesi, agli algerini, agli iracheni, agli egiziani e ai tunisini. Il problema di fondo è uguale per tutti, e si può riassumere in un liberalismo economico troppo spinto che ha eroso gli spazi dello Stato e mandato in mille pezzi intere società, trasformando il lavoro da fonte di benessere condiviso a mero sistema di sfruttamento internazionale. Se il problema è comune (populismo, anti-partitismo, crisi sistemica), le risposte possono essere diverse: allora può crescere ancora di più la preoccupazione di un Occidente che da anni predica l’esportazione della democrazia, ma poi fatica ad appoggiarne davvero l’esercizio se i risultati rischiano di essere diversi dalle sue attese e aspettative.
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