L’ultimo Rapporto annuale di Save the Children è un pugno nello stomaco. L’effetto su chi legge non è dovuto solo alla denuncia sociale che lo sorregge, e neanche alle belle immagini e alle storie riportate. C’è questo, ma anche molto di più. Il rapporto è frutto di un lavoro ben fatto e del tutto originale di documentazione sulla condizione dei minori in Italia che mostra come in questo caso, drammaticamente, coincidono visibilità sociale – ciò che attrae maggiormente l’attenzione dei mass media e dell’opinione pubblica e suscita una reazione emotiva – e incidenza statistica – quanto (e dove) il fenomeno è effettivamente diffuso. Trentuno bambini morti per mano della mafia in Sicilia negli ultimi quattro anni sono un dato statistico rilevante che però parla anche ai nostri cuori. Due milioni di bambini poveri chiamano in causa la nostra idea di giustizia sociale anche per la grandezza del numero.
L’effetto pugno nello stomaco non si deve solo a questo. Il Rapporto ci fa toccare con mano cosa significa essere un bambino povero senza indulgere nel miserabilismo. Ci ricorda che in Italia vivono circa due milioni di minori in condizione di povertà relativa (con un reddito cioè al di sotto di 1.700 euro per una famiglia di quattro persone): sono uno su cinque. Nel Mezzogiorno diventano uno su tre, in Calabria uno su due. Il 7% dei bambini non riesce a festeggiare il suo compleanno e a invitare amici per giocare e mangiare insieme. Oltre il 10% dei minori (il 16% nel Mezzogiorno) non può partecipare a gite scolastiche o a eventi a pagamento organizzati dalle scuole, l’11% (il 15% nel Mezzogiorno) non dispone di uno spazio adeguato per studiare. Il Rapporto ci aiuta a comprendere anche come questi bambini sono poveri non solo perché vivono in famiglie che non possono assicurare loro un benessere economico di base. Essi spesso hanno un destino sociale segnato, che le timide e frammentate politiche di sostegno alla crescita dei figli e quel che resta delle politiche educative e di edilizia popolare non riescono a deviare verso un esito diverso. Si è poveri anche perché il quartiere nel quale sei nato, la scuola che frequenti, il comune nel quale vivi hanno già deciso per te, quale che sia lo sforzo dei tuoi genitori o tuo personale nel tirarti fuori. Secondo il Rapporto, oltre 500 mila minori in Italia vivono in un comune sciolto per infiltrazioni camorristiche o mafiose, 740 mila in comuni in dissesto finanziario che non sono in grado di garantire servizi essenziali.
Le carenze nella attrezzature scolastiche e sportive, particolarmente gravi soprattutto nel Mezzogiorno, sono all’origine della incapacità della scuola di trattenere – o di non respingere – i ragazzi che vengono da famiglie economicamente deprivate e della diffusione dell’obesità, uno dei modi in cui si manifesta la povertà alimentare oggi (il 30% dei bambini italiani è sovrappeso – il 48% in Campania – e il 10% è obeso). I tagli alle politiche del tempo pieno scolastico nei contesti più ricchi e l’ulteriore disimpegno nei contesti già in partenza svantaggiati privano gli adolescenti italiani di modelli di ruolo positivi con i quali identificarsi in una fase della vita in cui, come giustamente nota il Procuratore del Tribunale dei Minorenni di Caltanissetta, “l’elemento della ricerca dell’identità” diventa più pressante. In questo vuoto modelli di sopraffazione e di malaffare o consumistici hanno facile gioco nel diventare più attraenti rispetto a percorsi educativi impervi che sottolineano agli occhi dei ragazzi la distanza tra le aspettative dell’istituzione scolastica e i modelli di successo che vengono loro proposti da un lato e la percezione negativa che essi – o il contesto in cui vivono – hanno di sé stessi e delle loro famiglie dall’altro. Nel caso delle ragazze meridionali è sempre più frequente il ricorso a matrimoni precoci – e a gravidanze altrettanto precoci – come modalità per sottrarsi al contesto segregante familiare e di quartiere, ricorso che alimenta i circuiti economici delle celebrazioni familiari e molti reality di successo.
Il quadro descritto mostra indirettamente anche i limiti del fallimento del carattere familistico del nostro sistema di protezione sociale. A differenza degli altri Paesi europei, i minori svantaggiati vivono infatti per lo più in famiglie in cui sono presenti entrambi i genitori, che a loro volta possono contare sull’aiuto di parenti e amici. Ma ciò evidentemente non basta. La debolezza dei “legami forti”, i legami che presuppongono una frequenza di scambi e una alta intensità emotiva, si mostra qui in tutta la sua evidenza. Pur rappresentando un indubbio elemento positivo rispetto a derive individuali e familiari, le reti familiari, ormai al collasso per il sovraccarico di aspettative che grava su di esse, non sono in grado di favorire processi di uscita dalla povertà in assenza di politiche di riqualificazione urbana, sostegno scolastico ed educativo, creazione di spazi di socialità, formazione professionale specifica. Ma prima ancora di tutto ciò è necessaria – occorre ribadirlo ancora? – una politica non categoriale di sostegno al reddito che riconosca il diritto di ogni bambino e bambina a condizioni di esistenza dignitose quali che siano le caratteristiche della famiglia alla quale appartiene.
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