Le armi della fede. La corrente etno-nazionalista tuareg maliana, riunita nel Movimento nazionale di liberazione dell'Azawad, non esiste più. Nel corso dell'estate è stata spazzata via dai gruppi jihadisti, alleati di Al-Qaeda nel Maghreb Islamico (Aqmi), che da marzo le contendevano il controllo del nord del Mali. Inizialmente le divisioni ideologiche non hanno impedito una pragmatica alleanza militare contro le demotivatissime e male equipaggiate truppe lealiste maliane. Ma, una volta sconfitto il comune nemico ed esaurito lo slancio iniziale, i tuareg hanno dovuto fare i conti con la superiorità bellica e finanziaria degli islamisti. Aqmi infatti ha accumulato negli anni una fortuna, grazie al contrabbando di tutto ciò che può essere fatto filtrare attraverso il buco nero incontrollato dell'immenso Sahara: sigarette, droghe dal Sudamerica, migranti dall'Africa sub-sahariana, e recentemente armi dagli arsenali libici. Il commercio più lucroso si è rivelato tuttavia quello degli ostaggi occidentali. L'arrendevolezza compiacente di alcuni governi europei ha fatto lievitare negli anni il prezzo di un riscatto: da 2 a più di 5 milioni di euro, per un totale accumulato negli anni stimato in più di 100 milioni di euro. Abbastanza per armare esercito pesante, comprare l'acquiescenza delle popolazioni locali a suon di prebende, e, soprattutto, pagare il soldo dei combattenti a prezzi inarrivabili per la competizione. Un vero e proprio dumping mercenario che alla lunga ha convinto a cambiare bandiera molti combattenti tuareg, soldati dell'esercito maliano e giovani civili disoccupati. Non è forse un caso se l'Mnla è stato cacciato dai territori che controllava, nella regione di Gao, fra la fine di giugno e l'inizio di luglio, esattamente mentre veniva negoziato il rilascio di Rossella Urru, dei due spagnoli e di tre membri del consolato algerino: tutti risultavano nelle mani del Mujao, branca di Aqmi di ascendenza mauritana e saharawi, che è infatti subentrata – armi in pugno – al Mnla in tutta la regione.
Al di là della superiorità economico-militare dei movimenti islamisti, il discorso etno-nazionalista dell'Mnla, condito di angherie e soprusi ai danni della popolazione civile, non aveva mai fatto davvero presa in un territorio in cui i tuareg rappresentano il 10% della popolazione. Tuttavia anche il rigorismo wahhabita d'importazione professato dagli islamisti è lungi dall'essere egemonico in un'area caratterizzata dall'islam tollerante e sincretista d'ispirazione sufi. La proscrizione degli alcoolici, il divieto di praticare il football e la distruzione delle tombe dei santi di Timbuctù (idolatri per i salafiti) hanno suscitato le proteste della popolazione locale. “Dovremo agire con cautela, progressivamente”, aveva ammonito il leader aqmista Abou Zeid. Ma nel corso dell'estate si sono susseguiti episodi di spettacolarizzazione penale di sinistra memoria, esibiti a fini pedagogici di fronte alla popolazione radunata a forza: lapidazione di coppie non sposate, taglio di mani e piedi a ladruncoli sorpresi in flagrante, pestaggi per i dissidenti, frustate per chi diserta la moschea durante il ramadan. A Gao, come a Goudam, l'indignazione della popolazione ha scatenato a inizio agosto movimenti di piazza che sono riusciti a salvare qualche condannato, senza tuttavia distogliere i “difensori della fede” (dal nome di uno dei movimenti islamisti, Ançar eddine) dal proposito di instaurare la sharia in tutto il Mali. Mentre Mokhtar Belmokhtar, leader algerino della falange qaedista radicata nell'Ifoghas, pare abbia ammesso: “That's not good for business”. Anche se una spaccatura all'interno di Aqmi sembra lungi da venire, l'episodio è indicativo dei contrasti (o del gioco delle parti?) che esistono fra la khatiba più intransigente diretta da Abou Zeid e alleata di Ançar eddine, e quella più “mafioseggiante” guidata da Belmokhtar, vicino al Mujao, di cui le cancellerie occidentali riconoscono l'apertura alla trattativa oliata da una razionalità economica comprensibile al linguaggio europeo.
La tensione religiosa intanto si estende per contagio anche nel sud del Mali controllato da Bamako. Cresce la popolarità delle sette wahhabite, generosamente sostenute dalle petromonarchie arabe, specialmente presso i giovani disoccupati disillusi dai miraggi dell'occidente. Il 12 agosto, il leader dell'Alto consiglio islamico del Mali, Mahmoud Dicko, ha radunato allo stadio di Bamako una folla di 60.000 persone per invocare con la preghiera la pace e la riconciliazione. Tuttavia lo stesso Dicko, che non nasconde le simpatie per l'islamismo radicale, è il primo a paventare i pericoli dell'occidentalizzazione; nel 2010 aveva dissuaso l'allora presidente Att dall'adottare un nuovo codice della famiglia, che prevedeva l'uguaglianza dei sessi.
Nella notte del 9 settembre, 16 predicatori della setta wahhabita Jama'at tabligh (la stessa del leader di Ançar eddine, Iyad Ag Ghali) sono uccisi a sangue freddo dai militari maliani del posto di guardia di Diabali, a nord di Bamako. “Uno spaventoso incidente”, a quanto pare, ma che di certo non contribuisce a distendere un clima sempre più pericolosamente polarizzato, aggiungendo un fronte finora inedito a una guerra già sufficientemente complessa.
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