Mali, la guerra delle contraddizioni. Nella notte dell'11 gennaio, il presidente francese Hollande autorizza il lancio dell'operazione Serval in Mali. Con una nota, si affretta a informare il Consiglio di sicurezza dell'Onu che tale decisione si inserisce nel quadro della legalità internazionale, {C}alla luce della risoluzione Onu 2085 del 20 dicembre, approvata all'unanimità nell'ambito del capitolo 7 della Carta delle Nazioni Unite che permette il ricorso alla forza militare. Quest'affermazione desta più di un dubbio.
La risoluzione 2085 autorizza infatti il dispiegamento di una forza militare a conduzione africana (e non francese né europea), previo conseguimento di determinati parametri (non raggiunti) relativi alla preparazione delle truppe africane e alla solidità della catena di comando, confermati poi da un apposito pronunciamento del Consiglio di sicurezza (che non c'è stato). Romano Prodi, delegato dal Segretario generale dell’Onu Ban Ki-Moon alla preparazione della missione in Sahel, aveva chiarito che difficilmente tali requisiti operativi sarebbero stati soddisfatti prima del settembre 2013. La missione di addestramento dell'Unione europea prevista a tale scopo non è neanche cominciata, e già le truppe maliane si trovano al fronte, senza alcuna verifica da parte del Consiglio di sicurezza.
I fatti attestano che le precauzioni disposte dall'Onu corrispondevano a effettive necessità operative, molto più che al mantenimento di “equilibrismi” politici screditati dalla propaganda interventista. La Federazione internazionale dei diritti umani e Human rights watch hanno già riportato diversi casi di esecuzioni sommarie, sparizioni forzate, torture e gravi abusi commessi dalle forze maliane nelle province contese di Niono, Mopti e Sévaré, ai danni principalmente di civili appartenenti alle etnie “bianche” tuareg e arabe. Secondo diverse testimonianze, l'impreparazione e l'indisciplina dell'esercito maliano spaventano le popolazioni locali non meno delle violenze dei ribelli.
Al di là della risoluzione 2085, Parigi sembra voler fondare la legalità internazionale dell'intervento in Mali sulla base di un'esplicita richiesta di aiuto delle autorità di Bamako. Ma questo terreno è forse ancor più scivoloso del precedente. Il presidente maliano Dioncounda Traoré è tale in virtù di un accordo di dubbia legittimità, sponsorizzato da Parigi, fra un'organizzazione regionale come la Cedeao e una giunta militare arrivata al potere tramite un golpe. Il suo mandato ad interim è scaduto, e si prolunga da oltre sei mesi fuori dai limiti costituzionali senza autorizzazione formale né base legale. La sua effettiva sovranità sul Paese è oggettivamente contestata da una sequenza di episodi troppo vistosi per essere ignorati: il 21 maggio, a seguito di una manifestazione non autorizzata, Traoré subisce un linciaggio da parte della popolazione entrata nel palazzo governativo sotto gli occhi indifferenti dei militari; il 10 dicembre il capo del governo Diarra viene sequestrato presso la sua abitazione e trascinato nel bunker del capo dei golpisti Sonago; rilasciato all'alba, si dimette e scioglie il governo; infine, il 9 gennaio di quest'anno, una grande manifestazione paralizza Bamako, chiedendo – per l'ennesima volta – una consultazione democratica nazionale, la fine del regime ad interim e le dimissioni di Traoré. Il giorno dopo scoppia la guerra, e viene proclamato lo stato d'emergenza.
Il divieto di accesso al teatro degli scontri imposto a una stampa che non sia rigorosamente embedded, da una parte e dall'altra, impedisce la diffusione di notizie e fa calare un velo di preoccupante opacità sul conteggio delle vittime: in un contesto in cui i ribelli si mimetizzano fra la popolazione civile (come in Afghanistan o in Iraq), infiammato da crescenti tensioni etniche e aggravato dall'impreparazione delle truppe africane che arrivano alla spicciolata, precedute da una reputazione terrificante acquisita nei conflitti che dilaniano da vent'anni la regione (dalla Liberia al Ciad), sarebbe irragionevole non aspettarsi un oneroso tributo di sangue innocente.
L'attentato in Algeria è la riprova dei timori di contagio dei governi circostanti e delle velleità chimeriche di quanti promettono di “blindare” vacue frontiere tracciate nella sabbia per migliaia di chilometri. Pare infatti che gli aggressori della katibah di Belmokhtar fossero passati dalla Libia per raggiungere il sito di Ain Amenas; analogamente, i commando di Abou Zeid sembrano essere passati dalla Mauritania per muovere alla conquista di Diabali. La penetrazione dei jihadisti è stata segnalata anche all'interno dei campi di rifugiati alla frontiera col Niger. E per le strade di Niamey già si sussurra che il presidente Issoufou, troppo sbilanciato a favore dell'intervento, potrebbe non riuscire ad arrivare a fine mandato.
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