Primo obiettivo: reprimere la libertà d'espressione. Il 6 marzo, a poco meno di due mesi dall’inizio dell'operazione Serval, il presidente del Mali Dioncounda Traoré ha istituito la Commissione dialogo e riconciliazione, per favorire la reintegrazione delle milizie e la normalizzazione del Paese. Unici ammessi ai negoziati fra gli ex-ribelli sono stati i tuareg del Mnla, tanto invisi al governo di Bamako quanto assecondati da Parigi.
Lo stesso giorno, quasi a smentire la definizione programmatica della nuova istituzione, i servizi segreti del Mali, sotto il controllo del capitano golpista Sanogo, hanno arrestato il giornalista Boukary Daou, colpevole di aver pubblicato le critiche di alcuni anonimi ufficiali nei confronti della gestione dell'apparato militare maliano. Trascinato in luogo segreto, Daou è stato incatenato, incappucciato, malmenato e interrogato per nove giorni. Solo uno sciopero generale della stampa maliana ha permesso infine di sbloccare la situazione. In sede di processo, tuttavia, l'avvocato di Daou si è limitato a contestare le maniere forti dei servizi segreti, e non la legittimità della detenzione: lo stato d'eccezione vigente nel Paese riconosce infatti che la condotta di Daou "avrebbe potuto demoralizzare le forze di sicurezza del Paese ed equivale quindi a un'incitazione al crimine".
L'episodio è costato il posto all'ambasciatore francese a Bamako, Christian Rouyer, che si era prodigato fin dai primi giorni dell’operazione Serval per ottenere la promulgazione di uno stato d'emergenza generalizzato, proprio per colpire i sostenitori della giunta di Sanogo. "Il fronte degli agitatori e gli altri nemici del Sud sono avvertiti: l'esercito francese è qui, e nessun'altra manifestazione dovrà essere autorizzata a Bamako prima della liberazione del Nord", dichiarava avventatamente Rouyer tre giorni dopo l'inizio di Serval. Il caso Daou ha dimostrato che Sanogo, spauracchio di Parigi, ha ancora il controllo della situazione a Bamako.
Oltretutto, sfortunatamente, non si è trattato di un episodio isolato: la repressione della libertà di espressione sembra essere il primo obiettivo perseguito in questa guerra – la più embedded della storia – da tutti i principali attori coinvolti: maliani, francesi, ciadiani e islamisti. In particolare, la partecipazione alla guerra in Mali ha conferito alla dittatura ciadiana – definita da Amnesty International come una delle peggiori in Africa – un'inaspettata legittimazione internazionale: il generale Lecointre, capo della missione di addestramento dell'Unione europea, ha riconosciuto nelle forze ciadiane un modello cui ispirarsi per la riorganizzazione dell'esercito maliano, chiudendo un occhio sulla pessima reputazione dei riscoperti alleati in tema di rispetto dei diritti umani.
Le autorità del Ciad ne hanno così immediatamente approfittato, lanciando un'azione repressiva capillare senza precedenti su scala regionale. In questo scenario il 22 marzo è stato arrestato nella capitale N'Djamena Jean Lokolé, giornalista e parente del leader dell'opposizione Saleh Kebzabo. Accusato di aver pubblicato "false accuse" ai danni di personalità vicine al dittatore Déby, è stato trattenuto per tre giorni in località segreta, e poi trasferito nella base militare di Amsinene, noto campo di tortura. Il segretario generale del sindacato dei giornalisti ciadiani, Eric Topona, ha preso pubblicamente le difese di Lokolé. Accusato di diffamazione verso gli organi di Stato, Topona è stato incarcerato senza processo il 6 maggio. Lo stesso giorno il Senegal ha annunciato l'espulsione di Makaila Nguebla, noto giornalista e blogger in fuga dalla dittatura ciadiana, di cui da oltre dieci anni denuncia i soprusi. Il giorno precedente il ministro della Giustizia ciadiano, in visita a Dakar, aveva incontrato il suo omologo senegalese nell'ambito dei negoziati relativi al processo di Hissène Habré. Inquieta la remissività della democrazia senegalese, storicamente accogliente, nei confronti dei diktat dell'emergente potenza militare regionale, benedetti da Parigi.
Proprio da Parigi è giunto l'ultimo, inaspettato colpo alla libertà di espressione. Il 12 aprile, l'ambasciata francese ha reso noto senza ulteriori giustificazioni che Aminata Traoré, politica e intellettuale altermondialista maliana, è diventata persona non grata sul suolo europeo. Dai tempi non sospetti della guerra in Libia Aminata Traoré denunciava il rischio di destabilizzazione dell'attivismo francese in Sahel, e la strumentalizzazione delle sofferenze delle donne per giustificare meno confessabili ambizioni egemoniche. La censura preventiva della voce della Traoré rappresenta una negazione senza precedenti del diritto al dissenso, che trascina la battaglia per i diritti umani dal remoto deserto del Sahara al cuore dell'Europa.
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