Che Matteo Renzi abbia messo i beni culturali tra i cinque punti da cui far ripartire la politica del Pd e del Paese è una cosa rivoluzionaria. Ma se vogliamo farla davvero, questa rivoluzione, dobbiamo smetterla di chiamarli "beni culturali".
Negli ultimi trent’anni la politica italiana (di destra, centro e sinistra) ha pensato al patrimonio culturale pubblico non più come a un settore in cui investire denaro per ricavare cultura, ma come a una sorta di gigantesco giacimento da sfruttare incessantemente in cerca di profitto. Non c’è politico che non abbia pontificato sui beni culturali come "petrolio d’Italia", e la stessa terminologia corrente ha registrato una netta involuzione: non si è più parlato di belle arti, opere d’arte e testimonianze storiche, ma piuttosto di beni, patrimonio, risorse, valorizzazione, gestione. Gli effetti che questa profonda distorsione ha prodotto sulla conservazione dell’arte e dell’ambiente sono drammatici. I più estremi sono quelli che mettono in discussione la stessa sopravvivenza del "bene" da "valorizzare": l’alienazione, la ristrutturazione selvaggia, gli iper-restauri distruttivi. Ma ve ne sono altri, non meno pericolosi, che sono connessi al "marketing" indispensabile alla redditività del bene, e che ne distorcono profondamente l’identità e il senso, e dunque ne minano alle fondamenta il valore educativo e culturale: la strumentalizzazione politica o ideologica, la forzatura in "eventi" di nessun valore culturale (a cominciare dalla maggior parte delle mostre), il "capolavorismo" feticista, la banalizzazione mediatica e turistica, una divulgazione di cassetta.
Ora c’è bisogno di voltare pagina. Bisogna smetterla di parlare (e dunque di pensare e di agire) come Bondi – ma bisogna anche avere il coraggio di dire che, su queste cose, tra il linguaggio di Bondi e quello di Veltroni non c’è una gran differenza.
La generazione che oggi rivendica il suo diritto a partecipare alla guida del Paese è capace di parlare un linguaggio diverso?
Oggi è rivoluzionario dire che l’arte e la storia non servono a fare soldi: non vanno costrette a produrre denaro, ma devono tornare a produrre cultura, cioè consapevolezza, cittadinanza, identità, memoria, integrazione. Devono essere messe in grado di produrre un senso più alto per la vita di noi tutti. Non devono essere adibite a riempire la pancia: devono tornare a dare un senso alla pancia piena.
In pratica ciò vuol dire che la qualità della vita culturale di una città e di una nazione non si misura sulle mostre, ma sui musei e sulla tutela del territorio; non si misura sugli eventi e le biennali, ma sull’accessibilità delle biblioteche; non si misura sui festival, ma sulla densità dei cinema e dei teatri, sullo stato dei parchi e dell’arredo urbano. Dobbiamo lottare per una politica culturale che non miri all’immagine, ma alla qualità della vita intellettuale, e che dunque possa riempire di senso la vita di chi non si occupa di cultura.
In pratica ciò vuol dire fornire a tutti gli strumenti per leggere, godere, amare la nostra storia e la nostra arte: cioè investire sull’educazione, sull’accessibilità e sulla conoscenza del tessuto permanente del nostro Paese. Ancora più in pratica, vuol dire rafforzare e difendere il lavoro delle università e delle soprintendenze: costringendole, però, a lavorare non per se stesse, ma per il Paese.
È vitale combattere per la salvezza del nostro patrimonio artistico, per la conservazione e la tutela dell’ambiente culturale che abbiamo ereditato e che abbiamo il dovere di trasmettere alle prossime generazioni. Ma dubito che questa battaglia possa esser vinta se non torniamo a comprendere a cosa serve questo patrimonio.
Andrò alla convention fiorentina dei rottamatori, spinto dalla speranza che un radicale ricambio generazionale (pure drammaticamente urgente) sia accompagnato da un ancora più radicale ricambio delle idee. Se non si torna a comprendere che Michelangelo non serve a fare qualcosa (a divertirci), ma a essere e a diventare qualcosa (più umani, più civili e, magari, anche più felici), non capiremo mai perché dobbiamo salvare Michelangelo: e alla fine lo perderemo anche materialmente.
Non è ancora troppo tardi per evitarlo, ma dobbiamo cambiare strada. Ora.
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