Ben di mestiere appicca incendi. È nato nel bush, quella boscaglia talvolta fitta di alberi talaltra composta da arbusti gialli, bassi e puntuti che contorna l’Australia; è cresciuto in una giungla in cui i pitoni fanno compagnia agli ananas e ai bufali e ha una solida consapevolezza del territorio. Conosce le piante, le impronte e i versi degli animali, parla la lingua degli aborigeni, sa regolarsi con l’alternarsi delle stagioni e con un clima che pare funzionare per estremi: estremamente umido o estremamente caldo, a tratti secco come terracotta altre volte travolto dalle spirali violette dei cicloni.
Ben lavora per un’agenzia governativa nel Northern Territory, lo Stato con la minore densità abitativa d’Australia, un rettangolone che va dal Mare di Timor, tropicale e verdissimo, fino ai deserti centrali ventosi, pietrosi e sciapi. Lo Stato che custodisce il cuore dell’isola, che batte rosso nella mitica Uluru, la grande roccia, il luogo dove per millenni le famiglie aborigene trovarono riparo e acqua, dove storie e tradizioni venivano narrate e condivise, dove ai ragazzini si insegnavano le regole della vita.
Gli incendi in Australia ci sono sempre stati. La natura del suolo e della vegetazione, il clima nella parte centrale da milioni di anni in prevalenza arido, sono tra le cause principali. Da quarantamila anni gli incendi fanno parte dell’ambiente, come sanno e dicono coloro che vi abitano da sempre e per i quali il fuoco ha un valore concreto e, contemporaneamente, simbolico e spirituale. Non un nemico di cui avere paura ma, al contrario, uno strumento.
Il fuoco è parte della vita, è un elemento da osservare, da capire e con il quale confrontarsi. Intorno a esso gli aborigeni costruirono e trasmisero conoscenze che avevano una doppia finalità: la prima, più evidente, era evitare che fiamme incontrollate e incontrollabili mangiassero ettari ed ettari di terreno e che mettessero a repentaglio la vita di esseri umani, fauna e piante; la seconda era contribuire al mantenimento del suolo e al suo stato di salute.
Per fare questo, praticavano una tecnica di incendi di natura preventiva: incendi bassi, delimitati e controllati che permettevano la sopravvivenza e il rinnovamento del terreno. Affinché fossero sicuri ed efficaci era necessario saper leggere in profondità l’ambiente, avere una grande dimestichezza con le condizioni climatiche e naturali: aspetti, questi, che erano parte fondante della loro quotidianità. Perché queste genti per millenni abitarono spazi enormi e spesso difficili, per millenni tramandarono cantandole le storie e le caratteristiche della terra, degli animali e degli esseri mitologici: questo ne fa dei poeti e dei saggi conoscitori.
I fuochi volontari dovevano essere appiccati al momento giusto e servivano a delimitare il propagarsi, nei mesi più caldi e asciutti, di quelli provocati dai fulmini o dal vento. Allo stesso tempo, contribuivano a rigenerare l’ecosistema, alla sua biodiversità. Agivano cioè in sintonia con i ritmi della terra: attiravano animali che venivano cacciati, arricchivano il suolo di cenere, che agiva come fertilizzante, rendevano il terreno più ricco di minerali e di fonti di sostentamento e “pulivano” il suolo, bruciando foglie secche e cortecce, entrambe altamente infiammabili.
Gli aborigeni hanno una bella definizione per queste tecniche: le chiamano “fuoco culturale” (cultural burning). “Culturale”, sì, perché basato su una somma di saperi preziosa, fatta di consapevolezza, rispetto e volontà di preservare l’ambiente. Ben di lavoro fa quello che le genti originarie hanno sempre fatto. Studia tempi e spazi, analizza il terreno, percorre chilometri e chilometri, interpella e avvisa le persone, controlla i venti, delimita e monitora le aree di intervento.
Lo fa nello Stato con la più alta percentuale di popolazione aborigena, che sfiora il 30% (negli altri Stati la media supera di poco il 3%). Nel Northern Territory il governo opera congiuntamente con le popolazioni indigene e integra le tecniche degli “incendi tradizionali” con altre strategie, assolutamente necessarie in un Paese che ha vissuto rilevanti cambiamenti antropici e di sfruttamento del suolo negli ultimi 230 anni, cioè con l’arrivo e la colonizzazione britannica.
Va specificato che questi metodi sono utilizzati anche in altri Stati australiani: sinora, però, in maniera circoscritta e locale. La tecnica del fuoco prescritto, d’altra parte, è stata usata a partire dalla prima metà del Novecento anche in diversi ambienti forestali, arbustivi, di savana e prateria del Nord America, dell’Asia e dell’Africa nonché, dagli anni Ottanta, in alcune regioni italiane.
Ben mi racconta che per dare fuoco al bush bisogna avere una profonda esperienza del quando e del come. È fondamentale appiccare il fuoco al momento opportuno, in modo che non arrechi danni. Il periodo in cui si concentra questo lavoro è l’inizio della stagione secca, a partire dal mese di aprile. Allora abitualmente le piogge dei mesi precedenti lasciano il posto a giornate umide, ma con cieli perlopiù limpidi. Il bush è verde ma non ancora arso. Se l’incendio volontario viene appiccato troppo presto, c’è il rischio che gli arbusti abbiano tempo a sufficienza per crescere e svilupparsi nuovamente, diventando un potenziale combustibile. Se, al contrario, si arriva tardi, la vegetazione sarà assai più secca e, quindi, più incline a bruciare.
In questo periodo capita, percorrendo le lunghissime strade del Paese, di filare di fianco a terra nera che alita calore, sotto un cielo spesso e acre di fumo. Capita anche di vedere un camioncino bianco con il simbolo del Northern Territory fermo in prossimità di un cartellone a forma di mezza luna: un uomo con pantaloni cachi e scarponi sta regolando una lancetta gialla. La mezza luna ha spicchi di colori differenti che aggiornano sul livello di pericolo incendi: verde vuol dire moderato, azzurro sta per alto, giallo molto alto, rosso è estremo. L’ultimo spicchio, rosso acceso, indica uno stato catastrofico.
Ben dà fuoco alla boscaglia utilizzando una fiamma bassa per far sì che non brucino gli alberi, prezioso elemento ambientale oltre che dimora di uccelli, marsupiali e altri animali. La terra bruciata crea una barriera che impedirà agli incendi che dovessero sorgere spontanei di diramarsi. Il “fuoco freddo” va appiccato di notte o di mattina presto, quando di norma il vento è più lieve e non è ancora sorto il sole, che incoraggia le fiamme. L’incendio si propaga con lentezza, non bruciano i semi delle piante e non si distruggono né le radici né le chiome degli alberi.
Nell’isola abbondano gli alberi resinosi: i più diffusi sono gli eucalipti, dalle foglie molto oleose. Quando prendono fuoco, queste foglie crepitano e scoppiettano come fuochi d’artificio in miniatura, le fiamme salgono rapide e le chiome diventano palle di fuoco: se c’è vento, queste palle si diramano di cresta in cresta a grande velocità (anche dieci chilometri orari), espandendosi e allargandosi per giorni. Li chiamano cacatua fire perché in qualche modo fanno venire in mente i cacatua, grossi pappagalli bianchi con una folta cresta gialla.
“I cambiamenti climatici e la siccità degli ultimi anni hanno un peso rilevante nel fenomeno degli incendi”, dice Ben, l’uomo del fuoco. Sono le cinque di pomeriggio a Katherine e la sua giornata è terminata: ci troviamo a fare il bagno nelle pozze termali appena fuori dalla cittadina. “Di fronte a quello che sta accadendo le tecniche tradizionali, anche se fossero applicate in maniera diffusa, non sarebbero sufficienti né risolutive. Per questo attuiamo i cultural burning in concomitanza con altre politiche di riduzione del pericolo di incendi e con interventi adattati alla vita contemporanea. Tuttavia, sono convinto che diffondere queste conoscenze e metterle in pratica in maniera ampia ci aiuterebbe a preservare e conservare l’ambiente”.
Un ambiente, quello australiano, di una ricchezza grande come i suoi cieli che pare non finiscano mai. Affascinante, potente e unico.
Riproduzione riservata