Non è raro di questi tempi sentir parlare di “età barbarica” e “invasioni barbariche”, non solo nel senso più generale dei film del regista canadese Denys Arcand (e del programma televisivo di Daria Bignardi), ma con specifico riferimento alla cultura dell’immagine e del progresso tecnologico che uccide quella secolare del libro.
«Simili ad Attila, distruttore di civiltà, stiamo diventando noi. Non lo siamo ancora, ma i sintomi sono gravi: il tentativo di annientare la cultura classica senza la quale la scienza e la tecnica possono trasformarsi in una fabbrica di mostri; il mercato cinico e selvaggio; la pubblicità urlata; la televisione frenetica, violenta e gesticolante»: così scrive Luca Canali nel suo recente saggio Fermare Attila. La tradizione classica come antidoto all’avanzata della barbarie (Bompiani 2009). Tuttavia il “noi” di Canali, latinista di fama, è una strizzatina d’occhio ai lettori: se leggi Luca Canali, di sicuro non sei un unno che corre ad accaparrarsi il nuovo iPad, ma piuttosto un irriducibile lettore di Tibullo in lingua originale, al limite con la traduzione a fronte di Luca Canali medesimo.
Il barbaro di oggi non è né lo straniero (come lo intendevano i Greci) né il vicino di casa che legge solo riviste di gossip: il barbaro è l’Homo numericus, inteso quasi come evoluzione (anzi, involuzione) dell’Homo sapiens sapiens, ovvero in senso generazionale. Attila sono i nostri figli che passano le loro giornate davanti a schermi di grandezza variabile (smartphone, pc, televisore) e che a sei anni padroneggiano software e suonerie meglio dei loro genitori; sono i nativi digitali, la preoccupazione più grande della pedagogia contemporanea (vedi l’ottimo saggio Born Digital, di J. Palfrey e U. Gasser, trad. it. Rizzoli 2009). Sembra quasi che i nativi digitali perderanno la capacità di tenere in mano un libro e di sfogliarlo direttamente, senza interfacce.
Tutto questo è assurdo, come è assurdo pensare che i nostri figli studieranno tutti informatica o ingegneria (l’affollamento delle facoltà umanistiche non fa pensare a niente di simile) e smetteranno del tutto di leggere per giocare a Sky Burger sull’iPhone: di sicuro ci sarà sempre più gente che gioca a preparare panini, ma è irragionevole credere che si tratti di tempo sottratto alla lettura di Virgilio, che risulta un po’ difficoltosa da fare in metropolitana.
Detto questo, è probabile che la lettura come passatempo stia subendo una contrazione, che forse potrebbe essere frenata (ma solo in parte) dalla lettura digitale, settore che negli Stati Uniti vale già un miliardo di dollari mentre in Europa stenta a decollare (in Italia ci sono già stati due importanti workshop sull’editoria digitale, “If book then” – Milano, 3 febbraio – e “Il futuro dei libri, i libri del futuro” – Rimini Fiera, 3-5 marzo).
È ovviamente giusto discutere di tutto questo, ciò che non ha senso è demonizzare il digitale tout court e internet, chiamando barbari i figli di questa transizione. Non sono barbari per almeno una ragione fondamentale: non distruggono niente, né tantomeno annientano la cultura classica. Anzi, la rivoluzione digitale si porta dietro un obiettivo culturale senza precedenti: si tratta della “preservazione digitale”, ovvero la possibilità di archiviare dati in formato digitale e di conservarli molto a lungo, sottraendoli quanto più possibile ai danni del tempo. Ma la strada è ancora lunga, perché sussistono ancora i rischi legati alla cosiddetta “obsolescenza digitale”, ovvero alla rapidità con cui la codifica di un file diventa obsoleta. Non è un problema insormontabile, basta raggiungere uno standard condiviso che, secondo il dibattito attuale, potrebbe essere basato sull’xml.
Il grande progetto europeo di Europeana, dopo le prime difficoltà, sembra ormai in grado di raggiungere gli obiettivi ambiziosi che si pone, ovvero – come si legge sul sito web – «rendere il patrimonio culturale e scientifico europeo accessibile al pubblico» e offrire agli utenti «funzioni avanzate, come le api (Application Programming Interface), le mostre virtuali e migliori funzionalità di ricerca» (lo sviluppo del progetto Europeana è stato uno degli argomenti di discussione del thatCamp Florence, un laboratorio itinerante su Digital Humanities la cui tappa italiana si è tenuta a Fiesole, presso la sede dell’European University Institute, dal 23 al 26 marzo scorsi).
Se, come dice Gore Vidal, romanzi e poesie stanno uscendo dall’agorà di oggi e «entro l’anno 3091 questi manufatti non esisteranno più se non come oggetti di interesse cenobitico» (G. Vidal, Navigazione a vista, Fazi 2006, p. 13), c’è solo da augurarsi che i cenobiti del futuro siano più fortunati di quelli medioevali: ovvero che abbiano ancora a disposizione il patrimonio culturale dei secoli precedenti, magari poco consultato ma ben archiviato e facilmente accessibile. E tutto questo non può che passare attraverso la digitalizzazione e l’archiviazione online.
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