Una storia molto italiana. La diffusissima guida turistica “Lonely Planet” negli ultimi tempi era una delle poche a offrire all’aspirante turista italiano qualche informazione sull’Eritrea, ancorché in un volume nel quale parte del leone la faceva l’Etiopia. Esaurita un paio d’anni fa, oggi una nuova guida fresca di stampa propone tutt’insieme Etiopia, Somalia e Gibuti. L’Eritrea è scomparsa. “Il governo non vuole il turismo” è la spiegazione corrente. Chi sta sul posto corregge: “Non vuole un certo tipo di turismo”.
In Eritrea le cose hanno sempre due facce. E di solito se ne conosce una sola. Non da oggi del resto. È da più di un secolo che questo Paese alternativamente domina l’immaginario collettivo dell’Italia o affonda nel suo subconscio. Dall’esaltazione del mito dell’Africa orientale alla cancellazione della memoria coloniale dopo la caduta del fascismo; dal sostegno entusiasta alla guerra di liberazione (Bologna ha ospitato per anni i raduni della diaspora a supporto della guerriglia), ai tenui mormorii disillusi dopo i primi anni d’indipendenza; dagli imbarazzati tentennamenti durante la guerra con l’Etiopia al silenzio assordante di oggi. Per romperlo ci sono volute alcune centinaia di morti che hanno suscitato sacrosanto dolore e indignazione ma ancora una volta limitati a un solo aspetto della faccenda, quello che fa dell’Eritrea, quando uno se ne ricorda, la pecora nera del Corno d’Africa.
Sull’altra sponda, qui lungo il Mar Rosso, il sentimento di essere “i paria del mondo” accomuna un po’ tutti: dai più tenaci sostenitori del governo ai più critici dell’attuale modello di sviluppo del carismatico presidente Issaias Aferwerki. I primi attribuiscono la disastrosa situazione economica interamente alle sanzioni Onu: “Basate sull’accusa non provata di un sostegno dell’Eritrea agli shebab della Somalia” spiegano indignate le fonti ufficiali. I secondi lamentano il centralismo, il dirigismo, i controlli ossessivi in nome della sicurezza. Sono tutte verità e tutte parziali: le sanzioni hanno ricadute pesanti ma ancora più pesante è la chiusura della frontiera con l’Etiopia; le procedure macchinose per spostamenti e comunicazioni non facilitano traffici e commerci ma lo stesso vale per l’allarmistica immagine internazionale del Paese. Nel quale, conformemente ad un modello di sapore sovietico assai datato, viaggiare richiede procedure lunghe e macchinose ma offre esperienze pregevoli e il viaggio è sicuro. Per quanto ci siano armi in tutte le case – frutto dello stato di mobilitazione permanente – il tasso di criminalità è bassissimo: si circola sicuri tanto nelle città quanto sugli aspri sentieri dell’altopiano dai paesaggi mozzafiato. D’altra parte, a ricordare lo stato di difesa permanente (lo stesso che giustifica un servizio militare che si prolunga all’infinito), sono sconsigliate le zone di confine e la criminalità sarebbe in aumento. Sul piano economico, se alcuni dati sconsolanti sono inoppugnabili – la mancanza di lavoro, il mercato nero, la fuga all’estero di una intera generazione, i fortunati per vie regolari (studi, parenti), gli altri nei modo che sappiamo – nessuno sembra fidarsi appieno di una ricetta liberista tout court.
Il Paese non sembra aver problemi a far convivere le due entità etnico-religiose maggioritarie dei cristiani copti e dei musulmani sotto la guida di un presidente che si professa ateo e promuove un ateismo di Stato tutto sui generis – educazione laica ma riconoscimento dei diritti delle comunità, delle loro scuole, del diritto consuetudinario di famiglia. Solo fugacemente si accenna al fatto che l’islam tra la popolazione è in crescita e che ciò domani può creare qualche problema: i posti chiave dell’amministrazione sono occupati più da cristiani che da musulmani, mentre i ruoli chiave nell’economia li detengono questi ultimi.
Di fronte a questa realtà dall’evoluzione incerta l’Italia sembra optare ancora una volta per la rimozione, sprecando così un suo patrimonio culturale, architettonico e linguistico di dimensioni notevoli. Mentre l’Eritrea ha fatto un grande lavoro di elaborazione del suo passato coloniale, di appropriazione del suo lascito e di integrazione di quella vicenda nella sua storia e identità nazionale, l’Italia sembra ancora oscillare tra le vecchie retoriche degli "italiani brava gente" e dei benefici della colonizzazione da un lato, e una crescente indifferenza per un Paese che non offre né i mercati aperti né il turismo di massa cari alla globalizzazione, e neanche regimi fiscali favorevoli all’impresa. Perfino gli aiuti e i progetti di cooperazione li accoglie con diffidenza esigendo di gestirli in prima persona e alle proprie condizioni. Il risultato è che ad Asmara c’è la più grande scuola pubblica italiana del mondo (senza parlare delle missioni religiose sparse per il Paese), dove le elite mandano i loro figli, ma l’italiano nelle scuole eritree non si studia e nemmeno nelle università. Vecchi italiani e vecchi eritrei si commuovono incontrandosi e rievocando il periodo d’oro dell’anteguerra, ma nel quartiere povero di Abshawu i bambini quando vedono un bianco chiedono “China?” Del resto i cinesi non realizzano solo infrastrutture (l’università di Adi Key ad esempio) ma offrono corsi di lingua gratuiti. Le giovani generazioni, ormai anglofone, sono lungi dal condividere l’entusiasmo per l’Italia dei loro avi (spesso anche italiani): non è l’Italia il Paese dove desiderano fermarsi quand’anche riescano ad arrivarci.
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