Seggi chiusi per lo storico referendum del 25 settembre nella Regione autonoma. Nessun problema particolare, nemmeno nelle aree contese, tra cui la città di Kirkuk, dove si temevano scontri tra milizie peshmerga e arabe.
Il risultato era scontato e non ha tradito le aspettative: i “sì” per l’indipendenza da Baghdad e, quindi, allo Stato curdo hanno stravinto. Secondo i primi dati della Commissione elettorale con oltre il 78% di affluenza i “sì” ottengono circa il 93% dei voti.
Del resto, buona parte del mito dei curdi e dei peshmerga è nato proprio qui, nella resistenza contro il regime di Saddam, che li ha a lungo repressi. E nelle strade della Regione autonoma, già nelle settimane che hanno preceduto il referendum, il clima era di grande euforia. La stragrande maggioranza di uomini e donne è convinta che la separazione da Baghdad permetterà di superare la crisi economica e sociale nella quale la Regione si dibatte ormai da anni, tanto per ragioni contingenti, come la guerra contro lo Stato islamico (oltre ai costi militari c’è da tener presente l’elevato numero di rifugiati iracheni che la Regione automa ha dovuto ospitare: a oggi sono oltre il 30% della popolazione), che strutturali (il bassissimo prezzo del greggio, in un’economia che vive quasi esclusivamente della vendita del petrolio, ha negli ultimi anni azzerato le entrate del governo).
Quali scenari apre questo referendum? Forse, al di là delle dichiarazioni degli ultimi giorni dei leader politici curdi e di quelli internazionali, questo voto sembra caratterizzarsi esclusivamente come una manovra interna alla Regione autonoma, che rischia di cristallizzare gli attuali rapporti di forza interni, impedendo un’evoluzione del contesto politico verso forme più mature, democratiche e autenticamente rappresentanti delle nuove istanze che pure stanno emergendo, ad esempio tra i più giovani.
Innanzitutto il referendum: al centro c’è l’indipendenza, ma di quale Kurdistan? Quello del sud, il Kurdistan iracheno, in pratica dell’attuale Regione autonoma, costituita dai tre governatorati di Arbil, la capitale, Dohuk e Sulaymaniyya (in pratica il nord dell’attuale Iraq), tutt’altra cosa dal “grande” Kurdistan, lo Stato promesso dagli Inglesi dopo la Prima guerra mondiale, che riunificherebbe tutti curdi, compresi quelli che attualmente vivono in Turchia, Siria e Iran, e che pure campeggiava su gran parte dei manifesti elettorali. Nemmeno è ipotizzabile la nascita di un movimento pancurdo, innanzitutto proprio per le rilevanti e profondissime divisioni nella compagine politica curda, con il partito attualmente egemone ad Arbil, il Partito democratico del Kurdistan (PDK) del presidente Barzani che ha più volte represso gli stessi curdi del PKK turco ed è con gli anni diventato un alleato e un sicuro partner commerciale del governo di Ankara.
Dunque, l’indipendenza è da Baghdad, con la quale i curdi condividono dal 2005 la Costituzione, che ha garantito loro lo status di Regione autonoma: nei fatti sono quasi una realtà statuale autonoma, con milizie proprie (i peshmerga che, sostenuti da americani ed europei, hanno svolto un ruolo centrale nella lotta contro lo Stato islamico) e istituzioni quasi sovrane. Perché, dunque, scegliere di effettuare proprio ora il referendum?
La decisione è stata assunta dal presidente Barzani, la cui legittimità è contestata da altri partiti curdi: il suo mandato è scaduto nel 2013 (dopo il limite dei due mandati) ma è stato prorogato per due volte, illegittimamente a sentire le opposizioni. Tuttavia, nel corso della guerra allo Stato islamico, Barzani ha potuto giovarsi della più classica delle situazioni di emergenza, rinviando la soluzione della crisi istituzionale alla fine della guerra. La liberazione di Mosul, però, ha allontanato la minaccia dello Stato islamico, almeno per gran parte dei confini curdi.
Il presidente curdo ha allora scelto di utilizzare la questione nazionale per proporsi come unico leader curdo in grado di trattare con Baghdad e dar vita a uno Stato curdo. L’annuncio ha funzionato: in maggioranza il popolo curdo, che desidera ardentemente non avere più niente a che fare con Baghdad, il governo che per anni lo ha represso in modo spietato, si è schierato con Barzani e i partiti di opposizione hanno potuto fare ben poco. Inizialmente avevano tentato di contestare la legittimità stessa del referendum (convocato dal presidente della Regione e non dal parlamento, i cui lavori sono stati bloccati dallo stesso Barzani per anni), hanno dovuto infine accodarsi. Un uso quantomeno spregiudicato della questione nazionale, permette al presidente curdo di prorogare l’emergenza istituzionale per i prossimi anni, facendo del suo partito il motore politico della Regione: lo si è visto anche a Sulaymaniyya, storica sede dei partiti alternativi al Pdk (Il Partito democratico del Kurdistan), quando Barzani ha radunato per un suo comizio miglia di curdi, palesando così, plasticamente, l’unità del popolo curdo. Barzani può ora tentare di capitalizzare il successo al referendum per vincere anche le prossime elezioni per il Parlamento (che ha fissato per novembre) e poter guidare le trattative con Baghdad.
Il referendum, infatti, ha un valore simbolico – altissimo, per i curdi, che da giorni festeggiano quello che è un giorno atteso da decenni – ma è un fatto interno, che, a detta dello stesso Barzani, non ha effetti immediati nel rapporto con l’Iraq e la comunità internazionale. Il modello è quello della Brexit: saranno, quindi, aperte trattative con il governo centrale che dureranno, parole dello stesso Barzani, non meno di due anni.
Ecco quindi che il referendum mette una seria ipoteca sulla possibilità di trasformazione ed evoluzione del sistema politico curdo: contiamo di essere smentiti, ma il rischio è di una prosecuzione del conflitto politico tra le storiche forze politiche del Kurdistan meridionale, incapaci sin qui di individuare proposte valide per uscire dalla crisi come pure sempre più distanti da una nuova generazione di curdi che, nata dopo il 1990, dunque dopo la liberazione della Regione, non vive più l’indipendenza come un elemento centrale (perlomeno non l’unico) per affermare i propri diritti e la propria cultura.
Tra i grandi problemi, oltre a quello dei proventi del greggio degli ultimi anni, sui cui da tempo si registra una lite tra il governo di Baghdad e quello di Arbil, quello che più peserà nelle trattative ci sono le aree contese, zone forzatamente arabizzate da regime di Saddam e reclamate dai curdi, tra cui Kirkuk, ricchissima di petrolio.
Tante incognite restano, dunque, ancora da verificare: ed è probabile che nelle prossime settimane all’euforia di questi giorni si sostituirà il ritorno della contingenza pressante della crisi economica e sociale. Il popolo curdo, tuttavia, potrebbe sorprendere nuovamente. Nel frattempo, però, i curdi iracheni, almeno per qualche giorno, possono festeggiare. Ne hanno tutto il diritto.
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