La generazione alla quale appartengo non dimentica gli orrori che ha vissuto. La nostra vita è stata dedicata allo sforzo di rendere per sempre impossibile il rinnovarsi delle stragi cui siamo scampati, costruendo l’edificio dell’unità fra le libere nazioni europee. Che cos’è questa Europa? Alla metà degli anni Trenta, in uno studio dedicato alla Crisi della coscienza europea, Paul Hazard ricordava, con felice ambiguità di significati, che «l’Europa è un pensiero che non si accontenta mai. Senza risparmio di se stessa, persegue costantemente due mete: l’una protesa verso la felicità; l’altra verso la verità».
Costruire un’Europa libera e unita, che ricerchi progresso e giustizia, che pratichi i principi costitutivi della democrazia e dell’uguaglianza dei diritti, è un compito che sembra non avere mai fine. Gli uomini della mia generazione hanno cercato di fare la loro parte, riscattando ideali traditi.
Toccherà ad altri continuare l’opera. Tocca e toccherà all’Italia, Paese fondatore dell’unità europea, un compito non secondario in questa impresa.
Vi sono stati momenti, anche in anni recenti, in cui vi era il dubbio che l’Italia non fosse abbastanza forte per partecipare a impegni importanti, come la costruzione della moneta europea. Abbiamo affrontato prove difficili, e le abbiamo superate, fin dal lontano 1978, quando si dovette decidere se aderire o meno al Sistema Monetario Europeo. Da allora sono trascorsi non pochi anni. Dopo successi e crisi nel lungo cammino verso l’unità monetaria, è venuta la scelta del Trattato di Maastricht, e poi la decisione di partecipare fin dall’inizio all’euro. Decisione quest’ultima più ardua, perché non dipendeva solo da un atto di volontà politica, ma richiedeva una sequenza di azioni e di comportamenti coinvolgenti l’intera società italiana, al fine di realizzare il necessario risanamento economico e finanziario.
Mi si chiede talvolta perché decidemmo di partecipare subito. Rispondo, come europeo, che senza l’Italia sarebbe nato un «euro» a larga prevalenza mitteleuropea. Ciò avrebbe squilibrato la nuova costruzione: la componente mediterranea, vera culla della civiltà europea, sarebbe stata emarginata e con essa le problematiche dei rapporti fra Nord e Sud.
Si sarebbe compiuto anzitutto un errore di politica europea, con gravi conseguenze non solo economiche, ma politiche e culturali.
Quanto all’Italia, senza quell’accelerazione, che legava l’esigenza troppo a lungo trascurata di portare a termine il risanamento economico al raggiun-gimento di un obbiettivo politico di alto livello sentito dal popolo italiano, gli sforzi per riequilibrare la finanza pubblica avrebbero dovuto essere maggiori, più gravosi i costi. Un impegno forte e deciso rese in breve tempo credibile lo Stato italiano, facendogli riacquistare la fiducia dei mercati; ridusse l’onere finanziario ed economico delle imprese.
Restare fuori avrebbe accentuato il dualismo territoriale del nostro paese, mettendo in pericolo la stessa unità nazionale. E se non avessimo avuto il coraggio di fare quanto necessario per entrare, noi saremmo rimasti fuori non solo dalla moneta, ma anche dalla politica europea.
Perché – non devono esserci dubbi su questo punto – il governo comune della moneta porterà a un governo comune dell’economia. Lo affermo da anni: non è pensabile avere una Banca centrale europea e non anche un governo comune dell’economia. Se non vi è il contraltare alla Banca centrale nel governo dell’economia, si ha una zoppìa: oggi di fatto l’abbiamo; sappiamo di doverla eliminare.
Ma attenzione: anche se l’edificio è incompiuto, la moneta unica è già una realtà statuale sovranazionale. È un fatto di grande rilievo. Undici paesi hanno compiuto, col consenso dei cittadini, una cessione di sovranità, in un settore importante e significativo quale è quello del governo della moneta.
Sta a noi far sì, attraverso le appropriate procedure e con il consenso delle pubbliche opinioni, che l’assorbimento di tradizionali strumenti di sovranità nazionale in sovranità più ampie avanzi ulteriormente, si estenda ad altri aspetti della nostra realtà istituzionale.
Ma a ogni passo avanti, si annunciano altre prove da superare, altri problemi da risolvere. Guardando indietro, vediamo di avere fatto grandi cose. Guardando avanti, ne scorgiamo altre ancora da fare, non meno grandi.
Oggi l’Unione si pone due ardui compiti: la riforma delle proprie strutture e l’allargamento. Sono ambedue necessari? Certamente. Sono alternativi? No, non lo sono.
Si delinea il grande progetto di un’Europa fatta di cerchi concentrici, che hanno in comune forti legami di tradizione e di identità e che vanno racchiusi in un perimetro giuridico comune. Tutto questo mondo si alimenta di comuni aspirazioni, con un comune interesse al consolidamento della pace e della convivenza fra i popoli nel pluralismo delle identità e nella consapevolezza, come ci insegnava Federico Chabod, che «l’idea di nazione è legata indisso-lubilmente a quella d’Europa».
Tutto, dall’eredità del passato ai risultati acquisiti in questi cinquant’anni, ci spinge a porre il raggiungimento di una soggettività costituzionale europea al centro della nostra visione del futuro. Ciò rientra nella tradizione politica italiana: Alcide De Gasperi parlava già nel 1951, riferendosi al progetto di esercito europeo, del perseguimento di uno «scopo di civiltà supernazionale».
Di questo processo d’integrazione l’Italia è parte attiva e determinante. Esso passa in primo luogo attraverso l’iniziativa degli Stati che, più di altri, si sentono custodi dei principi ispiratori dell’Europa.
Riflettendo sul doppio compito dell’«approfondimento» e dell’«allargamento», ci si chiede: ha uno di questi compiti la priorità, temporale o logica, sull’altro? Sono convinto che se si avvia l’allargamento senza aver realizzato il rafforzamento si rischia poi di non fare più l’Europa unita che vogliamo.
Tocca dunque ai paesi che sono già parte dell’Unione europea e che accettano l’idea della sovranazionalità, procedere alla modifica delle regole, per rendere più forti le istituzioni europee, per rendere pienamente operativo il governo dell’entità sovranazionale.
Non si tratta di legarsi a schemi rigidi di Bundes-Staat o di Staaten-Bund, di Stato federale o di confederazione di Stati. Inedite combinazioni dell’uno e dell’altro modello istituzionale sono immaginabili, nel dar forma alla costituzionalizzazione dell’Unione europea, nell’impegno a renderla più efficiente e più rappresentativa, affinando relazioni ed equilibri fra Commis-sione, Consiglio e Parlamento europeo, in una sintesi dei principali aspetti intergovernativi e comunitari.
Lungo questo percorso, al fine di soddisfare fondamentali elementi di democrazia, i cittadini europei vanno messi nella condizione di capire che cosa li attende e di esprimere le loro scelte, la loro volontà. Affinché le istituzioni possano affermarsi nei popoli, esse devono corrispondere ad attese di fondo della coscienza collettiva.
Si sta lavorando anche a questo. La Carta dei diritti fondamentali, che l’apposita Convenzione sta elaborando a Bruxelles, mira a richiamare i diritti fondamentali dei cittadini europei, definendone la natura (individualità, inviolabilità, giurisdizionalità) e a infondere un contenuto concreto alla cittadinanza europea, in modo da incardinare i principi basilari della demo-crazia nel tessuto costitutivo dell’Unione europea.
Nella presente realtà dell’Unione europea, la priorità l’ha il rafforzamento delle strutture. È indispensabile rafforzare prima di allargare, per non com-promettere, anzi per migliorare l’efficacia del sistema comunitario. A sei si poteva trovare l’unanimità; a quindici con grande fatica; a venticinque è praticamente impossibile.
Ma ciò che va concluso prima – il rafforzamento – deve rientrare in un calendario che non differisca sine die l’allargamento. Gli impegni formali, e ancor più quelli morali, assunti con tanti paesi europei, non consentono di dir loro: ci rivedremo fra qualche anno.
Deve esserci un processo politico articolato, scandito razionalmente nel tempo, che leghi l’uno all’altro sviluppo: l’allargamento e il rafforzamento. Si possono e si debbono portare avanti le trattative in ambedue i campi insieme.
La dilatazione dei confini dell’Unione europea rappresenta al tempo stesso una sfida e un’occasione da non perdere. Ma è doveroso rendere i nuovi stati candidati consapevoli della nostra volontà secondo cui in futuro l’Unione europea dovrà essere molto più di quanto è ora.
Tali stati devono essere consapevoli che l’Unione europea di oggi sta cambiando, perché tende alla sovranazionalità, pur nel rispetto delle nazioni, che non verrà mai meno. Devono sapere che l’Unione, alla quale chiedono di aderire, si propone sviluppi ulteriori che la porteranno alla sovranazionalità in campi oltre la moneta: dalla politica estera e dalla difesa, allo spazio di libertà, di sicurezza e di giustizia. Questo complesso di materie è già oggetto di una calendarizzazione che ci impegnerà fra il 2000 e il 2004.
Non si potrà dare via libera all’allargamento finché non si sia deciso e avviato il rafforzamento. Sono d’accordo con il presidente Chirac quando afferma «che l’Europa prima di aprire le porte deve riformare le sue istituzio-ni». Concordo anche con quanto ebbe a scrivere nel novembre scorso il Presidente Rau, quando riaffermò l’obiettivo di «una costituzione breve e comprensibile, che spieghi ai popoli le finalità e la struttura della Federazio-ne»: di una Federazione europea di nazioni democratiche.
Oggi la capacità decisionale dell’Unione risente negativamente di scelte passate, del non aver fatto precedere i successivi allargamenti da riforme istituzionali efficaci. L’estensione del voto a maggioranza, la sua connessione con tutte le procedure di codecisione fra il Parlamento e il Consiglio sono avanzamenti non più rinviabili.
Se si guarda al campo più avanzato dell’Unione, il cosiddetto primo pilastro – ossia la parte economica – e si riflette su come funziona il sistema istituzionale, si vede che stiamo avvicinandoci a un governo dell’economia in un sistema statuale unitario.
È necessario prevedere, in una Unione allargata, per impedire dispersioni, il diritto a una integrazione più stretta, a una cooperazione rafforzata, fra i paesi che sono in grado di farlo e vogliono farlo: come già è accaduto per la moneta europea.
Ancora una riflessione sull’allargamento. L’obiettivo dominante di que-sto processo è in ultima istanza la pace europea. Quando parlo di pace europea, intendo non soltanto la capacità di difesa nei confronti di terzi, ma in primo luogo la capacità di realizzare la convivenza pacifica fra i popoli europei.
La crisi dei Balcani ha rappresentato un’amara lezione per tutti. I Balcani sono un banco di prova della capacità europea di collaborare e parlare con una voce sola. Durante la crisi nel Kosovo l’Europa ha mostrato la propria maturità politica: altrettanto, se non di più, deve fare nella costruzione della pace e di solidi assetti. Anche i più coraggiosi interventi rischiano di fallire se non si afferma fra i popoli lo spirito di rispetto della persona umana, se rimangono vivi odi etnici e religiosi.
Avendo questo in mente, e riflettendo sul fatto che non tutti i paesi che vogliono entrare nell’Unione sono oggi pronti ad accettare quei livelli di sovranazionalità che abbiamo già realizzato, o che ci prepariamo a realizzare, ebbi occasione di dire che, accanto ai paesi che potranno presto attuare l’«ormeggio» all’Unione, altri ve ne sono cui occorre offrire intanto un sicuro «ancoraggio». Usai per la prima volta questi termini in Finlandia, parlando con il presidente Ahtisaari, avendo di fronte il porto di Helsinki, e nella memoria quello della mia natia Livorno.
Gli sviluppi che ho richiamato sono oggi tutti avviati su un binario negoziale ben tracciato. Quest’anno di conferenza intergovernativa, questo 2000 che è un altro anno cruciale per l’Europa, deve produrre i cambiamenti necessari. Non possiamo accontentarci di cambiamenti minimali che lascino l’opera incompiuta o che ne pregiudichino il compimento.
La ricerca di un accordo a livello minimo può certo facilitare il consenso, potrebbe rappresentare l’apparente successo di non facili negoziati; risulte-rebbe però miope, addirittura sterile, se si ha presente che la variabile «tempo» non è infinita, tanto meno nella presente realtà mondiale.
Abbiamo un grande disegno: fare dell’Europa un modello per il mondo, un pilastro di pace, in una realtà globale piena di incognite. Per questo dobbiamo prepararci, disegnare, perseguire progetti ambiziosi. Non erano meno difficili quelli che sono stati già realizzati.
Nella costruzione di quest’opera c’è lavoro per tutti. Per gli uomini di governo, anzitutto. Ma anche per gli uomini di studio. Ad essi spetta, in particolare, di chiarire i termini di passaggi istituzionali che sono fondamen-tali; di inventare – uso la parola nel suo significato etimologico – soluzioni che non possono non essere in parte nuove, perché nuovi, non sperimentati sono in molti aspetti i problemi ai quali dobbiamo dare soluzione.
Questo compito va intrapreso in un’ottica non solo europea ma mondiale. È in corso un processo di globalizzazione inarrestabile.
All’interno di questo quadro noi vogliamo che si realizzi concretamente l’avanzamento dell’intera Europa verso un benessere vero, non soltanto economico ma civile, rispondente alla visione sociale che è caratteristica della cultura europea.
Sia le opportunità sia i possibili effetti negativi della globalizzazione devono fungere da «federatore esterno» per l’Europa, spingendola a integrar-si anche per evitare la decadenza, o per non veder dissolvere la propria identità.
Ma non è solo un istinto difensivo o passivo ad animarci. Questa nostra Europa incompiuta ha molto da insegnare al mondo. Ha la capacità di creare poteri sovranazionali, che divengano strumenti di cooperazione e di pace. La nostra esperienza può indicare la via al rafforzamento anche delle istituzioni internazionali.
Questo può essere il compito che l’Europa, consapevole dei suoi fatali errori passati, ma forte anche dei suoi valori e dei suoi antichi e nuovi ideali, figli di una cultura maturata nei secoli in luoghi di studio come questo, può prefiggersi di assolvere nel nuovo secolo: giungendo a parlare con una sola voce nel grande concerto delle nazioni, a cominciare dalle Nazioni Unite.
L’avvio del secolo da poco concluso vide l’Europa uscire di senno e imboccare la strada che condusse a due guerre mondiali. All’inizio del nuovo secolo l’opera di pace, successivamente intrapresa, ha fruttificato: il passaggio dall’Europa vagheggiata nei sogni dei nostri padri all’Europa delle realtà è ormai compiuto attraverso l’Europa dei Trattati di Roma, di Maastricht e di Amsterdam.
L’Europa, finalmente unita, ha ritrovato il cammino della saggezza e della pace, sta generando in sé le forze per essere artefice nel mondo, è tornata alla piena coscienza della propria civiltà. Sta a noi proseguire lungo il cammino intrapreso senza esitazioni, con determinazione, con fiducia, sicuri dei nostri ideali, consapevoli delle nostre forze.
[L’8 febbraio 2000, durante la sua visita a Bologna, Carlo Azeglio Ciampi, presidente della Repubblica, venne in visita al Mulino. Sul numero 2/2000 della rivista, pp. 203-208, riportammo un ampio stralcio del suo intervento. Lo riproponiamo ora]
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