I timori legati agli effetti della pandemia di Covid-19 sulla scuola sono stati e sono molteplici: alle preoccupazioni di ordine strettamente sanitario, per evitare accelerazioni del contagio, si affiancano incertezze di carattere logistico (come conciliare modifiche di orario e nuove chiusure con l’attività lavorativa dei genitori?) e la paura di ricadute socio-cognitive (deficit di socialità e traumi derivanti dal clima post-apocalittico, tipico delle fasi più acute della pandemia). In questo vortice di ansie, tutte comprensibili e ben motivate, sembrano rimanere in ombra preoccupazioni più strettamente educative: l’idea, cioè, che un’intera generazione stia accumulando un grave ritardo formativo, a cui occorre trovare in fretta risposte efficaci.
Il problema del learning loss causato dalla pandemia è ben presente nelle analisi istituzionali, a livello sia nazionale (il rapporto La scuola che verrà. Attese, incertezze e sogni all’avvio del nuovo anno scolastico, realizzato da Save The Children), sia internazionale (il policy brief 2020 dell’Onu Education during Covid-19 and beyond), ma fatica a trovare spazio nel dibattito pubblico. L’attenzione dei media, tradizionali e non, alla riapertura dell’anno scolastico è stata incentrata su temi di salute pubblica (le direttive fornite alle scuole per riaprire in sicurezza e come rispettarle), nonché su fondate critiche ai ritardi organizzativi accumulatisi nei mesi estivi: interventi strutturali assenti o tardivi, banchi mai arrivati, intoppi nell’assunzione di nuove unità di personale, confusione nell’assegnazione dei fondi messi a disposizione a livello regionale e locale, oltre alla discutibile scelta di far votare per referendum e regionali pochi giorni dopo la tanto sospirata riapertura delle scuole, causandone l’immediata richiusura in quanto sedi di seggio. In tutto questo clamore, il tema di quanto siano rimasti indietro i nostri studenti nella loro preparazione e che cosa sarà possibile fare per aiutarli a recuperare risulta del tutto assente, o quasi.
Analogo silenzio si riscontra anche a livello micro: non solo nelle grandi discussioni sui media e nelle conferenze stampa dei politici, ma persino nel privato dei collegi di classe e delle discussioni fra genitori.
In cima alla lista di preoccupazioni e lamentele all’apertura dell’anno scolastico c’erano le lacune informative («perché non ci avete comunicato prima gli orari?»), lo spauracchio di nuove chiusure («come faccio a tenere a casa i figli e a lavorare?»), la confusione sulle corrette procedure («che cosa devo fare se mio figlio ha la febbre?»), e spesso l’ansia per ricadute sociali e affettive («mio figlio non ne può più di stare chiuso in casa, ha bisogno di uscire e di stare con i suoi amici!»). Quasi mai si sono sentite voci che esprimessero timori legati direttamente all’apprendimento: quanto danno hanno subìto le capacità di base dei nostri studenti (leggere, scrivere, fare di conto, orientarsi nel mondo e nella storia, ragionare in modo autonomo e critico) durante i mesi di lockdown e che cosa possiamo e dobbiamo fare per rimediare a questo deficit?
Persino laddove i rischi educativi che stiamo correndo vengono riconosciuti, l’attenzione tende a concentrarsi su due aspetti specifici, fra loro strettamente collegati: la dispersione scolastica e gli effetti delle diseguaglianze economiche e culturali sull’educazione. Questo tema emerge con grande chiarezza nel contributo di Francesco Rocchi pubblicato pochi mesi fa in questa rivista, in cui si evidenzia come l’abbandono scolastico si leghi a filo doppio con svariati effetti prodotti dalla pandemia: «calo dei redditi familiari, mancanza di attrezzature digitali, mancanza di spazio nelle case degli studenti, difficoltà a conciliare lavoro e istruzione» (Lasciare la scuola anzitempo: le possibili conseguenze del Covid sulla dispersione scolastica, «il Mulino», n. 4/2020).
[L'articolo completo è pubblicato sul "Mulino" n. 6/20, pp. 1096-1102. Il fascicolo è acquistabile qui]
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