La realpolitik ottomana. Sembrava categorica la decisione turca di non prendere parte alle operazioni militari in Libia. La mozione interventista caldeggiata dal presidente francese Nicolas Sarkozy è stata duramente condannata a Doha dal ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoğlu, in occasione del Sesto Forum Al Jazeera (12-14 marzo 2011). In tale sede, Davutoğlu ha reso omaggio alle rivolte arabe definendole come parte di un'evoluzione storica e una tappa necessaria per sanare le anormalità sorte dal colonialismo. La posizione turca appariva indiscutibile, eppure, a pochi giorni dalle dichiarazioni non interventiste, il 24 marzo, il parlamento turco ha approvato l'invio di forze militari e di navi da guerra in territorio libico. La svolta turca si inserisce nel quadro della preesistente tensione tra Ankara e Parigi. L'ipotesi di un'operazione militare a guida francese era stata più volte oggetto di critiche da parte del Primo ministro Recep Tayyip Erdoğan. Le tensioni si sono accese in seguito al vertice di Parigi del 19 marzo scorso sulla questione libica, un incontro che ha escluso la presenza turca e che, in questo modo, sembrava confermare il noto dissenso del presidente francese nei confronti dell'apertura europea verso Ankara. Da parte sua, il Primo ministro turco ha condannato le pressioni imposte dalla Francia alla comunità internazionale e ha messo in luce i latenti interessi francesi che soggiacciono all'iniziativa contro la Libia. Quella di Parigi, infatti, sarebbe una manovra finalizzata a modificare lo status quo nell'Africa mediterranea per ricostituirlo ex novo sotto regia francese.
Il 24 marzo, lo stesso giorno in cui Ankara portava le sue posizioni al vertice Nato, il parlamento turco inaugurava la svolta in seno alla politica libica approvando la partecipazione alle operazioni militari. Davutoğlu aveva già annunciato da giorni che il suo governo avrebbe seguito la coalizione internazionale sotto la bandiera Nato, di cui la Turchia è membro dal 1952. Tuttavia, l'intervento rimane vincolato a condizioni precise: il mandato impone che l'operazione non assuma la forma di un'occupazione militare e che venga garantita la sovranità del popolo libico sulle risorse naturali. Oltre alle considerazioni politiche, i forti legami economici tra i due paesi possono spiegare la svolta di Erdoğan. L'accordo di cooperazione del 1975 ha permesso l'accesso a numerose compagnie turche e l'occupazione di 25.000 famiglie. A detta di molti economisti, l'economia turca si è introdotta sistematicamente nel tessuto economico libico tanto da renderne impossibile un'eventuale estromissione. In altre parole, con o senza il raìs, Tripoli non potrà fare a meno delle attività turche.
Allo stato attuale, è indiscutibile il ruolo di mediazione svolto da Ankara. Una volta limitato il protagonismo di Parigi, la Turchia si è mossa affinché le operazioni conservassero un tono di bassa intensità. E, non a caso, si è impegnata, in un secondo momento, nella promozione e nella redazione di una road map finalizzata alla risoluzione pacifica della crisi. A conferma dell'impegno diplomatico turco, si aggiungono gli sforzi che la Turchia sta compiendo in casa siriana. Dopo diversi contatti telefonici tra Erdoğan e il presidente siriano Bashar Al-Asad, Ankara ha manifestato il suo interesse per promuovere il processo di democratizzazione in Siria sottolineando la volontà di concedere alla famiglia regnante un'altra chance. In effetti, il collasso della Siria potrebbe comportare una lunga instabilità regionale. Se l'Iran non può permettersi di perdere il vicino siriano, anche il Libano teme il peggio e diversi movimenti palestinesi hanno trovato la loro casa a Damasco. D'altra parte, è certo che Israele aspiri al crollo del suo pluridecennale rivale il prima possibile. La crisi siriana si presenta come una situazione ben più contorta e complessa di quella libica. Ancora una volta, alla Turchia spetta il difficile compito affidatole dall'immaginario collettivo, ossia quello di edificare il tanto auspicato ponte tra la realtà europea e quella araba.
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