Il ministro turco e la crisi siriana. Negli anni passati, sulle pagine di politica estera dei giornali, si era scritto spesso, e in termini decisamente positivi, del ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoğlu, in carica dal maggio 2009, considerato come il fautore di una svolta storica nella politica estera del Paese. Eppure, l’incidente avvenuto il 4 ottobre scorso presso la cittadina di Akçakale, nella provincia di Şanlıurfa, al confine con la Siria, ha forse decretato il definitivo crollo dell’immagine del ministro, già fortemente criticato nelle settimane precedenti. Il serio rischio di una guerra tra Siria e Turchia non si sposa facilmente con la sua idea di politica estera turca, esposta chiaramente nel celebre testo dal titolo Profondità strategica (Stratejik Derinlik), pubblicato da Davutoğlu anni prima, nell’ambito delle sue funzioni accademiche. In quel testo, di cui sono state pubblicate in Turchia oltre cinquanta edizioni, egli sosteneva l’ormai noto principio, quasi uno slogan, “zero problemi con i Paesi vicini”, in base al quale sarebbe stato necessario integrarsi con i Paesi dell’area del Vicino e Medioriente, impegnandosi per risolvere, per vie pacifiche, le diatribe regionali in corso. Altro principio cardine del pensiero di Davutoğlu era quello secondo cui sarebbe stato necessario garantire la “sicurezza per tutti”, cioè attuare una diplomazia efficace e di primo piano, fondata sul dialogo politico ad alto livello e sul rispetto culturale reciproco. Non si sarebbero dovute trascurare, pertanto, le pressanti esigenze economiche, legate alla globalizzazione: per garantire la sicurezza si dovrebbe stabilire la pace, ma per stabilire la pace non bisognerebbe compromettere la sicurezza.
Coerentemente con i principi sopra esposti, negli anni scorsi la Turchia sembrava avere avviato un processo di ridefinizione delle relazioni con tutti i Paesi vicini allo spazio geografico turco, divenendo uno dei principali partner commerciali degli Stati confinanti e prossimi, anche attraverso la creazione di una zona di libero scambio regionale, che aveva condotto a elaborare degli accordi per l’abolizione dell’obbligo del visto con la Siria, il Libano e la Giordania. Davutoğlu era divenuto un personaggio popolare e positivo, in una politica estera avara in passato di figure simili. La diplomazia statica, unilaterale e rigida che aveva caratterizzato il governo islamico sembrava così avere ceduto il posto a una diplomazia dinamica, flessibile e multilaterale, capace di mettere in discussione i precedenti assetti, di innovarli e di ridefinirli secondo criteri di praticità.
Eppure, negli ultimi mesi, la strategia di Davutoğlu ha conosciuto una fase di stallo, per non dire di crisi nera. Non è un caso, infatti, che il celebre editorialista del quotidiano “Milliyet”, Kadri Gürsel, abbia cambiato il proprio giudizio sulla politica estera dell’attuale governo dell’Ak Parti. Gürsel, infatti, che non più tardi di cinque mesi fa, definiva Davutoğlu “il più ambizioso e capace ministro degli Esteri dell'era repubblicana” (dal 1923 a oggi, N.d.A.), non esita oggi a definirlo, in maniera antitetica, come un ministro fallito. Non è da meno un altro editorialista, Yusuf Kanlı, il quale ricorda che Davutoğlu aspirava a rendere la Turchia la prima potenza dell’area, una sorta di Grande fratello regionale, ma nei fatti l’ha trasformata in un Paese fragile, dal futuro imperscrutabile.
Le prime avvisaglie si erano avute in occasione della crisi libica: l’ormai defunto regime di Gheddafi, legato alla Turchia da accordi bilaterali, fu abbandonato non appena mostrò segni di cedimento e, successivamente, attaccato militarmente dal vecchio alleato turco, spinto unicamente dalla convenienza economica e dalla necessità di organizzare la più grande missione umanitaria dalla fondazione della Repubblica (cinquemila cittadini turchi rimpatriati).
Quanto all’odierno caso siriano, il mutamento di politica estera è stato, se vogliamo, ancora più drammatico. Il regime del ba‘th di Siria, guidato da una élite appartenente alla minoranza sciita degli ‘Alawī (in turco Alevi, principale minoranza confessionale della Turchia), si è repentinamente trasformato, nella visione turca, da alleato leale in un pericoloso nemico. Dalla firma degli Accordi di Adana del 20 ottobre 1998, in epoca pre-Erdoğan, i rapporti tra i due Paesi erano sembrati in fase di progressivo rafforzamento, culminando con le reciproche visite di Stato, la firma degli accordi bilaterali per la libera circolazione di merci e persone (siglati nel biennio 2008-09) e la funzione turca di mediazione tra la Siria e Israele.
Invece, come nel caso libico, il voltafaccia è stato palese: al principio della rivolta siriana, la Turchia aveva inizialmente confermato i buoni rapporti, salvo poi condannare il regime di Asad e proporsi come un Paese ospitale nei confronti dei profughi siriani. Anche la retorica della Turchia che aiuta efficientemente la povera popolazione siriana (sunnita) in fuga dalla crudele dittatura si è ritorta contro Davutoğlu. Dopo l’iniziale buona riuscita delle operazioni di accoglienza, che hanno proposto al mondo un’immagine decisamente positiva della Turchia, del suo governo islamico e del suo ministro accademico, l’aumento incontrollato del flusso di persone ha fatto perdere il controllo della situazione. All'inizio del 2012 il numero dei rifugiati siriani in Turchia non superava le 15.000 unità, ma nel mese di luglio erano oltre 50.000. A causa della intensificazione degli scontri tra opposte fazioni, i rifugiati sono diventati più di 100.000 e rischiano di aumentare ancora. La maggioranza dei turchi è confusa per quanto riguarda la gestione della crisi, ma in ogni caso non vuole che il governo offra assistenza militare all'opposizione siriana. Infatti, oltre ai consueti problemi legati alla questione curda, adesso si teme che la popolazione multietnica della provincia di Hatay, un tempo contesa dalla Siria, possa manifestare comportamenti conflittuali di natura interetnica.
Purtroppo, la Turchia ha commesso un errore molto grave in Siria e l’immagine di Davutoğlu ne è uscita decisamente appannata, se non definitivamente compromessa. Il sostegno alla Fratellanza sunnita, diversamente da altre situazioni del passato, non ha sortito gli effetti sperati contro il laico alevi di Siria, Bashar al-Asad. Inoltre, l’attuale crisi di confine sembra avere rafforzato (come se ce ne fosse bisogno!) l’immagine delle forze armate, se è vero che la visita del 9 ottobre alle truppe stanziate presso il confine siriano, dei due illustri generali Necdet Özel (Capo di stato maggiore) e Hayri Kıvrıkoğlu (Comandante supremo delle forze di terra), è stata salutata positivamente dall’opinione pubblica nazionale.
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