Angelo Guglielmi nella sua lunga vita ha fatto tante cose: il critico, il letterato, l’autore, l’insegnante, il presidente dell’Istituto Luce, l’assessore alla cultura del comune di Bologna. Ma quella che più si è associata al suo nome, tanto da diventare un riferimento ormai persino proverbiale e di certo ineludibile, è la sua direzione di Raitre. Sono stati poco più di sette anni, dall’11 marzo 1987 al 17 settembre 1994, che Guglielmi ha affrontato con decisione e autonomia. Indicato dal Partito comunista italiano nella consueta spartizione delle spoglie (quella volta, tra Agnes, Manca e Veltroni), è partito da una sostanziale tabula rasa – la terza rete del servizio pubblico, prevista nella Legge di riforma del 1975 e in onda dal 1979, metteva in fila trasmissioni culturali e programmi provenienti dalle varie sedi regionali nel disinteresse dei più –, ha spiazzato le aspettative e alla fine del tragitto ha lasciato un canale dagli ascolti elevati, dalla proposta ricca e definita e dall’identità duratura.

È impossibile trattenersi dal fare la lista dei programmi di quella fortunata stagione, molti ancora in onda con i loro nomi a distanza di trent’anni, altri sostituiti da qualche epigono non troppo dissimile e altri comunque ancora rimasti impressi con forza prima nell’immaginario e poi nella memoria collettiva di una nazione intera. Nella Raitre di Guglielmi c’è stato lo spazio per i primi passi di Michele Santoro (Samarcanda, poi Il rosso e il nero) e di Giuliano Ferrara (Linea rovente), per gli abboccamenti televisivi di Gad Lerner, Gianni Riotta ed Enrico Deaglio (Profondo Nord, poi le varie edizioni di Milano, Italia), con la ribalta per le nascenti leghe e l’incontro tra i politici e la gente comune, da sola o in gruppo, in studio o nelle piazze. C’erano – e ci sono – la cinefilia corsara di Fuori orario e il senso nuovo dato ai frammenti televisivi dalle giustapposizioni di Blob. C’erano il Telefono giallo di Corrado Augias, inventore dei plastici di casi di cronaca ben prima di Vespa e Chi l’ha visto con Paolo Guzzanti e Donatella Raffai, alla ricerca anch’essa telefonica di persone scomparse; c’erano i processi in quasi-diretta di Un giorno in pretura (un contenitore pronto poi per accogliere i dibattimenti di Tangentopoli), le ricostruzioni piene di tensione di Ultimo minuto con Maurizio Mannoni e Simonetta Martone al sabato sera, il salotto dei sentimenti al femminile di Harem con Catherine Spaak e il servizio al cittadino contro furbetti e truffe di Mi manda Lubrano. E, ancora, ci sono stati gli esordi di Piero Chiambretti con il Divano in piazza, i Complimenti per la trasmissione, suonando il campanello di spettatori a caso, o Il portalettere, che recapitava La cartolina (di Andrea Barbato) a persone di spettacolo e di cultura, politici e presidenti picconatori. E poi la scuola comica orchestrata da Serena Dandini e dai fratelli Guzzanti, con La tv delle ragazze, Scusate l’interruzione, il successo strepitoso di Avanzi, Tunnel; e, ancora, le prime mitologiche edizioni di Quelli che il calcio, con Fabio Fazio e il suo circo/circolo domenicale fatto di personaggi improbabili e recuperi inattesi.

Ma questa sfilza vertiginosa di titoli e di personaggi, di generi e di scoperte, con una densità e ricchezza e varietà che altre reti e altri professionisti possono soltanto invidiare, è comunque giusto una parte dei meriti di Guglielmi direttore, e del suo formidabile gruppo di lavoro (con Ghezzi, Voglino, Beghin, Tantillo, Balassone), e forse nemmeno quella più importante. L’esperienza di Guglielmi a Raitre è stata qualcosa di più, capace di oltrepassare e trascendere i singoli tasselli, per quanto spesso geniali. In primo luogo, la terza rete di quegli anni ha capito che la televisione è un insieme, una sequenza, un flusso, un palinsesto, dove anche il migliore tra i programmi è condizione necessaria ma non sufficiente, e dove il tutto vale molto di più delle singole parti. Il lavoro di programmazione si è intrecciato da subito alla costruzione di un’immagine coordinata, anche grafica e sonora, e di un’identità coerente. L’etichetta di «tv-verità», a tenere assieme il talk politico e il servizio al cittadino, lo sguardo sulla realtà delle cose e la comicità che di queste stesse cose reali si nutriva, non è solo indicativa di un «ritorno nel mondo» dopo anni di studi televisivi e colori artificiali, ma è anche il denominatore comune capace di dare senso a ogni cosa, pur con qualche forzatura, pur con qualche sbavatura. Come scrive con chiarezza Guglielmi dentro al libro-manifesto che raccoglie il racconto di quella stagione, Senza rete (con Stefano Balassone, Rizzoli e poi Bompiani, 1997 e poi 2010): «il rimprovero massimo che da sempre veniva rivolto alla tv era di essere, riguardo alle cose italiane, evasiva, consolatoria, reticente e, qualche volta, bugiarda. Così, il nostro obiettivo (quasi obbligato) diventava la costruzione di una rete che parlasse soprattutto ed essenzialmente delle cose, dei sentimenti, dei moti, delle rabbie, delle febbri e delle malefatte di casa nostra e ne parlasse con estrema sincerità e spregiudicatezza e con un linguaggio ricco di appeal». Qui stanno il senso e il valore di una rete come Raitre, costruiti passo dopo passo, rimasti nelle abitudini e nelle memorie del pubblico, confronto inevitabile per tutte le Raitre successive e per quelle future.

La Raitre di Guglielmi ha accolto la sfida della televisione commerciale e, lungi dal rifugiarsi in un’elitaria idea di cultura alta, ha cercato di modellare una "televisione a furor di popolo"

Ma ancora non basta. La direzione della terza rete da parte di Guglielmi, in secondo luogo, ha saputo accogliere la sfida non solo della sua contemporaneità sociale e politica, ma anche dell’ormai trionfante televisione commerciale, della Fininvest di Berlusconi, del famigerato Auditel (operativo dal 1986). Lungi dal rifugiarsi in un’elitaria idea di cultura alta, ha cercato di modellare una «televisione a furor di popolo» (ancora da Senza rete). Invece di rifiutare il confronto, trincerandosi dietro a chissà quale status eccezionale del servizio pubblico – e di quello schierato a sinistra, per giunta! –, si è sporcato le mani, ha adottato linguaggi popolari e generi mainstream filtrandoli con una sensibilità differente, ha sfruttato le stesse armi tentando di piegarle ad altri fini, accettando il rischio (sempre possibile, e talvolta accaduto) di venirne anche un poco travolti, di risultare meno puri, compromessi dal successo.

In terzo luogo, e di conseguenza, il Guglielmi direttore di Raitre, con una visione ben più lungimirante di quella che ancora oggi caratterizza tanti intellettuali, ha sempre cercato il pubblico, ha costruito una rete capace di attrarre gli spettatori, di tenerli davanti allo schermo, di farli ritornare. Ha creato abitudini, costruito casi ed eventi «da non perdere», ha stabilito un patto chiaro con l’audience, l’ha coinvolta in un corpo a corpo costante: con i suoi volti di punta, con le telefonate, con gli scontri, con i personaggi dei comici. Il servizio pubblico può essere tale solo se un pubblico ce l’ha, oppure cade nel vuoto. La cultura «non è tutto, ma è un senso del tutto», la cui riuscita può e dev’essere sancita anche dagli ascolti tv: Auditel è stato di certo un problema, ma «i problemi aiutano la creatività (se c’è), le forniscono il saldo appoggio della concretezza» (sempre da Senza rete). I nobili ideali o il ricatto dei temi non sono che una scusa.

Guglielmi ha sempre cercato il pubblico, ha stabilito un patto con l'audience e costruito una rete capace di attrarre gli spettatori, di tenerli davanti allo schermo e di farli ritornare

In molti tra i necrologi a lui dedicati, si racconta Angelo Guglielmi come un intellettuale prestato, tra le altre nobili cose, alla televisione. Ma la sua vera forza è stata quella di essere insieme un intellettuale e un abile professionista di televisione, un addetto ai lavori, un practitioner. In parallelo alla sua vita nel mondo delle lettere, è stato dipendente Rai dal 1955; ha frequentato i corsi di formazione di Guala e Gennarini con le migliori teste di quegli anni; ha scritto programmi, è stato capostruttura e direttore di un centro di produzione; Raitre non è un caso, corona un lungo percorso e sottolinea il valore di una competenza che non è stata certo solo televisiva, ma è stata anche televisiva.

Proprio per questo la sua Raitre è un riferimento ineludibile nella storia della televisione come della cultura, della politica e della società del nostro Paese. Stanno lì le radici profonde di tanta televisione di oggi, nel bene e nel male: dal trionfo del talk show infinito ai primi germi del reality, dalla politica a misura di popolo (quando non di populismo) alla spettacolarizzazione diffusa. A far la differenza, allora, era l’inserimento di ogni pezzo in un disegno complessivo, al servizio di un progetto, aperto al cambiamento e all’imprevisto ma comunque definito, studiato, pensato. Grazie alle idee, al mestiere e al tempo di far crescere entrambi. Ed è questo che Guglielmi ci insegna e che ora manca davvero – a una tv intanto profondamente cambiata, e non solo.