Venerdì scorso Angela Merkel ha tenuto la sua tradizionale conferenza stampa prima della pausa estiva. Hanno destato un certo scalpore le sue ultime parole, con le quali ha espresso solidarietà alle deputate democratiche attaccate di recente da Donald Trump. In sala stampa più di un giornalista ha fatto notare come si trattasse di un giudizio insolitamente chiaro e diretto, lontano dal suo stile consueto.
Al di là di questo, Merkel conferma uno stile e una sostanza dell’azione di governo che difficilmente possono essere definiti usando le tradizionali categorie di interpretazione della politica. Ormai arrivata ai suoi ultimi anni di mandato – ha ribadito l’intenzione di lasciare nel 2021, alla scadenza naturale della legislatura – la cancelliera ha scelto di aprire la conferenza con la soddisfazione per il voto del Parlamento europeo che ha confermato la scelta del Consiglio di indicare Ursula von der Leyen alla guida della Commissione europea.
Angela Merkel sa che il giudizio sul suo lungo cancellierato sarà definito in gran parte da quello che avverrà in Europa nei prossimi mesi. Del resto, i cancellieri tedeschi entrano nella storia se riescono a legare efficacemente la questione nazionale a quella europea: Adenauer, con la scelta del campo occidentale e dello scontro ideologico con il comunismo, Brandt con la Ostpolitik, Kohl con la riunificazione concordata insieme alle altre potenze. Per andare a ritroso sino a Bismarck, che tentò di apparire come un onesto sensale (ehrlicher Makler) nel corso del «vertice» di Berlino del 1878.
La cancelliera ha condotto il negoziato europeo cercando di salvare il principio dei capilista, gli Spitzenkandidaten, primo passo per una democratizzazione vera delle istituzioni. Ma invano, anche per le resistenze del presidente francese Macron, davvero inspiegabili per chi si professa europeista. Di fronte a un agguerrito fronte populista che aveva annunciato di voler «rivoltare l’Unione», la cancelliera ha preservato, nonostante tutte le difficoltà e le crisi degli ultimi mesi, l’asse con Parigi, indispensabile per il consolidamento europeo, e, alla fine, è riuscita a far eleggere una politica tedesca di primo piano – Ursula von der Leyen è stata più volte indicata come possibile, futura cancelliera tedesca – alla guida della Commissione. Merkel lo ha ribadito nella conferenza stampa: di fronte a blocchi e a paralisi «la politica ha l’obbligo di trovare sempre nuove strade». In questo modo, l’accordo è stato davvero di alto profilo, con due figure di primo livello alle istituzioni comunitarie, una francese e una tedesca.
Proprio con von der Leyen alla guida della Commissione anche i cittadini della Repubblica federale avranno l’obbligo di comprendere i problemi con cui l’Europa si dibatte e di individuare delle soluzioni: è un tema che Angela Merkel da tempo ribadisce, perlomeno dall’elezione di Trump, quando, in un gazebo nel corso di una festa in Baviera, forse il Land più «provinciale» di tutta la Germania, ribadì che gli europei dovevano prendere in mano il loro destino. E che ciò significava anche nuove responsabilità con cui fare i conti.
Se i piani dei mesi scorsi di portare un tedesco alla guida della Banca centrale si fossero concretizzati, la Germania sarebbe stata accusata, nuovamente, di imporre la propria visione macroeconomica al resto del continente. Di voler «germanizzare» l’Europa. L’esito del negoziato mette sotto i nostri occhi una realtà ben diversa; soprattutto, con la guida della Commissione, Merkel spera di impegnare direttamente il proprio Paese per trovare una soluzione ai problemi ai quali sin qui non si è riuscito a rispondere, vale a dire rafforzare il ruolo del Parlamento e procedere ad alcune necessarie riforme istituzionali, definire un’Europa sociale e più attenta alle questioni occupazioni, completare la riforma di Dublino per un’immigrazione più ragionevole e attenta ai diritti umani, come ha ripetuto durante la conferenza stampa.
Questa è la cifra del merkelismo: ogni problema può essere misurato, affrontato e superato con la leale collaborazione di tutte le parti in causa. Merkel si è detta «ispirata» dalla battaglia ambientalista di Greta e ha annunciato una serie di misure, di interventi e di obiettivi (molto ambiziosi) per i prossimi anni, anche per prevenire critiche ai ritardi sin qui maturati dai suoi governi, che la cancelliera ha ammesso senza esitazioni e spiegando come intende evitare gli stessi errori del recente passato.
Angela Merkel ripete spesso l’esempio del salario minimo, introdotto nella scorsa legislatura: era una proposta della Spd, l’ha fatta sua e ne ha discusso per mesi con sindacati e rappresentanti delle aziende. Alla fine, il sistema è stato approvato. La cancelliera cita volentieri questo esempio perché sottolinea il suo stile di governo, privo di quella smania di proporsi come una donna sola al comando. Tutt’altro: confermandosi rappresentante della migliore tradizione tedesca, Angela Merkel coinvolge le parti sociali, i partiti politici, i corpi intermedi della società, li ascolta e crede, poi, fermamente nell’autonomia della politica. Le riforme di questi quattordici anni di cancellierato sarebbero state impossibili senza il pieno coinvolgimento non solo del Bundestag che, nonostante le limitazioni determinate dalle Grandi coalizioni, è garantito dalla Costituzione, ma anche delle parti sociali. È l’altro tratto del merkelismo: la politica decide ma non può essere autosufficiente.
A bene vedere, forse una delle sue più grandi sconfitte è stata quella di non essere riuscita a costruire la coalizione con Verdi e Liberali dopo le elezioni del 2017: Merkel sapeva che era quella più giusta, più rispettosa, cioè, del risultato elettorale. Sapeva anche la formula della GroKo era logora. Tuttavia, dopo mesi di trattative e il rifiuto dei liberali di condividere le responsabilità di governo, ha fatto ricorso ancora una volta al suo principio: trovare nuove strade, perché la politica ha la responsabilità di dare un governo al paese.
La cancelliera ha cosi fagocitato i suoi avversari politici, con lunghissime trattative per definire una posizione comune, ascoltando di buon grado tutte le loro proposte per arrivare ad un programma comune. Ha collocato la Cdu davvero al centro del sistema politico, in quella Mitte che è da sempre il sogno di ogni politico tedesco. Il che ha funzionato, perlomeno fino alla decisione del 2015, quando l’arrivo dei rifugiati ha rivelato quanto radicali fossero alcune forze che pulsavano nel profondo della società tedesca. Ma proprio la scelta del 2015 ha mostrato come il suo non fosse solo opportunismo politico: c’era un prezzo da pagare e la cancelliera ha accettato di pagarlo.
Di fronte a questo stile di governo, la socialdemocrazia si è smarrita: ha accettato il confronto con Angela Merkel senza un programma chiaro e «radicale», ha mediato praticamente sui dettagli, è apparsa una forza incapace di uscire dal perimetro fissato dalla cancelliera. Non sono state (tanto) le riforme di Schröder a eroderne il consenso (che, infatti, non si è trasmesso alla Linke), quanto piuttosto l’incapacità di definire una strategia coerente per il futuro.
Cosa succederà nei prossimi mesi – in particolare con le tre elezioni nei Länder orientali – potrebbe mutare nuovamente il panorama politico tedesco: la cancelliera tuttavia non intende cedere e, almeno per il momento, la guida della politica tedesca è ancora saldamente nelle sue mani. Lo ha ribadito anche a chi le ha chiesto del suo stato di salute e se questo potesse avere conseguenze su una conclusione anticipata del suo governo: «Conosco quali responsabilità impone il mio ruolo e sono la prima a interessarmi della mia salute. Intendo andare avanti come cancelliera sino al 2021 ma mi auguro di restare in salute anche oltre! Sto bene».
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