Ha molte ragioni Ernesto Galli della Loggia nella sua accorata denuncia di ciò che, come ha scritto sul «Corriere», sta rendendo il nostro Paese «invivibile». Così ha ragione quando denuncia la diffusione di fenomeni, sempre meno sanzionati dalla condanna pubblica, come «l’ignoranza, la superficialità, la maleducazione, la piccola corruzione, l’aggressività gratuita» (aggiungerei, una incultura politica fondata solo sulla logica «amico-nemico»).
Ha ragione quando individua una causa fondamentale di degenerazione nel venir meno di una «politica fondata sulle grandi organizzazioni di massa», partiti e sindacati, che svolgevano anche una funzione formativa. Non a caso infatti, se si vuole individuare in Italia un punto di svolta nel processo di brusco degrado e disintermediazione della politica, questo si colloca all’inizio degli anni Novanta, quando crolla repentinamente, sotto i colpi congiunti delle indagini di «Mani pulite», di un vuoto di risposte credibili ai problemi posti dai tempi nuovi, e di eventi interni e internazionali, il sistema dei partiti «storici» che aveva dominato fino ad allora, e si apre un’era di personalizzazione leaderistica della politica, di caccia al voto sulla base non di idee-forza, ma di sollecitazioni alle emozioni superficiali della «gente», di contrapposizioni esasperate.
Non ha torto neppure quando denuncia come cause del peggioramento l’indebolimento o la scomparsa di «agenzie di socializzazione» che in precedenza svolgevano una rilevante funzione di acculturazione, come la Chiesa, il servizio militare, la scuola e la televisione pubblica. Dove invece dissento in parte dalla analisi e dalla diagnosi di Galli della Loggia è su quella che mi pare una certa nostalgia da lui mostrata per il ruolo dominante, nella società del «buon tempo antico», del principio di autorità. Così egli non si limita a rimpiangere, giustamente, il venir meno di un’educazione ad una «non belluina convivenza»: rimpiange la scuola di un tempo perché educava non solo alle «forme basilari della modernità e delle istituzioni dello Stato», ma anche «alla disciplina e al rispetto dell’autorità»; individua nell’esercito di leva una funzione di addestramento non solo alla «solidarietà di gruppo» ma anche al «carattere inevitabile di una gerarchia»; rimpiange una televisione pubblica che non solo (osserva giustamente) fu «grande pedagoga», svincolata «sia dal mercato sia dai desiderata del pubblico», ma divulgava «un’informazione sapientemente calibrata» (che, se non si comprende male, vuol dire anche filtrata e all’occorrenza censurata) e si ispirava ad una «morale cautamente in equilibrio tra vecchio e nuovo».
La società italiana del dopoguerra, specie nei primi decenni, era ancorata a valori antichi, parzialmente difformi e anche antitetici rispetto ai principi cui si ispira la Costituzione
Ora, non si può negare che la società italiana del dopoguerra fosse, specie nei primi decenni, ancorata a valori antichi sì, ma per una parte difformi e anche antitetici rispetto ai principi cui si ispira la Costituzione (primato della persona, diritti inviolabili e doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale, eguaglianza senza discriminazioni di sesso, di origine, di condizioni personali e sociali; compito delle istituzioni di perseguire la giustizia sociale rimuovendo gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e la partecipazione di tutti all’organizzazione del Paese). Era, per dire, la società del «marito capo della famiglia», dell’adulterio punito solo per la moglie, del delitto «d’onore» punito con una pena inferiore. Era un mondo del lavoro e della fabbrica dal quale spesso restavano fuori i diritti dei lavoratori.
Quando dunque il pontificato di papa Giovanni aprì al vento del Concilio Vaticano II, che spingeva la Chiesa a un nuovo incontro con l’umanità del mondo moderno; quando spirò anche nel nostro Paese il vento «antiautoritario» del «Sessantotto», della «contestazione» nelle università e nelle fabbriche, della richiesta di riconoscimento dell’obiezione di coscienza al servizio militare, delle manifestazioni per la pace in Vietnam; quando la Lettera a una professoressa della scuola di Barbiana di don Lorenzo Milani metteva in discussione la scuola tradizionale e i suoi caratteri «di classe», e le istituzioni scolastiche si aprirono alle istanze di partecipazione degli studenti e delle famiglie (i «decreti delegati»): ebbene, non si trattava di spinte verso una «società senza veri legami», o «frantumata in un individualismo carognesco e prepotente».
Vi furono, certo, sviluppi, deviazioni e reazioni anche gravissimi (tutti ricordiamo gli anni dello stragismo e del partito armato, da cui le istituzioni riuscirono a farci emergere, pur con tutti i limiti che la storia ci ha mostrato), ma c’era nelle spinte sociali e culturali cui ho accennato un’aspirazione – sempre attuale – a una società più libera e più giusta.
Certe spinte socioculturali del dopoguerra ebbero gravissimi sviluppi, deviazioni e reazioni. Tuttavia, in esse era presente un’aspirazione, sempre attuale, a una società più giusta
Ecco perché, ad esempio, si può essere d’accordo sul fatto che la semplice soppressione del servizio militare obbligatorio ha fatto venir meno un’occasione (peraltro per i soli cittadini maschi!) di socializzazione e di integrazione, ma non si può essere nostalgici di una concezione militaresca della gerarchia, né di un ordinamento delle Forze armate allora non ispirato, come vuole la Costituzione, allo «spirito democratico della Repubblica». Ecco perché è giusto preoccuparsi se il livello sostanziale di cultura e di istruzione dei giovani si abbassa, e se, sia pure episodicamente, nelle scuole si manifestano atteggiamenti «nichilisti» di rifiuto non dell’autorità ma del ruolo dell’insegnante: ma non si può essere nostalgici di una scuola autoritaria e di classe.
Ecco perché è giusto denunciare il manifestarsi, nella televisione generalista, anche pubblica, in nome degli «indici di ascolto» e del peso determinante del finanziamento derivante dalla pubblicità commerciale, di forme di comunicazione lontane dalla cultura di un vero confronto democratico. Ma non mi paiono condivisibili il generale rimpianto di Galli della Loggia per la scomparsa delle istituzioni della tradizione e la denuncia della loro sostituzione con «forme nuove», fra le quali egli annovera, tutte insieme e indiscriminatamente, sia quelle richieste dai «gusti del pubblico», dagli «indici di ascolto», dai «tempi della pubblicità», dal «desiderio dei vertici di non dispiacere a nessuno», sia quelle richieste dai «sindacati» (?), dai «movimenti», dalle «comunità di base», e addirittura dalla «pace»: il tutto, conclude, coltivando «un’idea fasulla di modernità e di libertà». Lavorare per una società più democratica non significa chiedere che si eliminino ruoli e competenze, né che ogni decisione delle istituzioni sia guidata dal (vero o presunto) consenso del maggior numero. La democrazia costituzionale non è nemmeno prevalenza in ogni caso del volere della maggioranza: è prima di tutto rispetto del valore di ogni persona, rispetto della verità dei fatti, eguaglianza di diritti e di doveri, garanzia delle minoranze, apertura al confronto civile sugli argomenti, non allo slogan più accattivante.
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