A dispetto di un tasso medio annuo di crescita del 9,5% dal 1979 al 2017 – un fatto epocale nella storia economica –, una più estesa consapevolezza dell’ascesa globale cinese e delle sue implicazioni sembra essersi fatta strada in Occidente solo di recente. La competizione globale col Regno di Mezzo si è definitivamente imposta all’attenzione di classi dirigenti e opinione pubblica in conseguenza delle tensioni politico-economiche tra le due sponde del Pacifico e della sua più significativa propaggine: quella che investe la tecnologia 5G.
Sulla scorta, tra gli altri, del Rapporto sullo sviluppo dell’Internet of Things (Iot), redatto il 25 ottobre scorso dalla US China (Economic and Security Review Commission), l’amministrazione Trump si è prodigata infatti in questi mesi per limitare la possibilità che il colosso cinese Huawei diventasse fornitore di tecnologie 5G negli Stati Uniti e, adducendo ragioni di sicurezza, ha «invitato» i partner occidentali – ad oggi, per la verità, senza grandi risultati – a fare altrettanto. «Non riuscire a vincere la gara nel 5G – ha osservato il presidente della commissione senatoriale per il Commercio, il repubblicano Roger Wicker, in un’audizione dello scorso febbraio – ridurrà per sempre i benefici economici e sociali derivanti della leadership mondiale nella tecnologia».
In un interessante articolo sul “Financial Times” del 26 aprile scorso, Kiran Stacey dava conto del dibattito in seno ai vertici dell'amministrazione statunitense attorno al cuore del problema: l’assenza di un rivale americano dell'azienda cinese. Del resto, ancora a metà degli anni Novanta, l’American Telephone and Telegraph (At&t) era una delle aziende più avanzate a livello globale nel settore digitale. Nel Telecommunications Act del 1996 si individua l’inizio della fine: tale atto normativo, emanato dall’amministrazione Clinton con l’obiettivo di «ridurre la regolamentazione e incoraggiare lo sviluppo delle nuove tecnologie delle telecomunicazioni», si ritiene abbia invece contribuito alla frammentazione del mercato indebolendo l’intero comparto e la sua capacità competitiva. Ora, se sul breve periodo le compagnie di telecomunicazioni a stelle e strisce sembrano intenzionate a ricercare la collaborazione di Nokia, Ericsson e Samsung come fornitori di apparecchiature 5G, maggiore affidamento circa le proprie capacità di recuperare tale svantaggio competitivo viene fatto sul medio periodo. Si prevede infatti che la transizione verso il 5G e il relativo adeguamento infrastrutturale si concluderanno nel volgere di almeno un decennio.
Contestualmente, il dibattito sulle modalità con cui competere con la Cina ha tratto ulteriore linfa da altre due importanti circostanze: da una parte la presentazione del manifesto di politica industriale franco-tedesco dello scorso febbraio, dall’altra la notizia trapelata alcune settimane fa che le agenzie di regolamentazione americane hanno deciso di seguire con maggiore attenzione i colossi dell'hi-tech.
In questo momento Stati Uniti e Unione europea si trovano, infatti, di fronte ai medesimi dilemmi: se e come derogare alla disciplina dell’antitrust e quale ruolo spetti allo Stato (si mette in questa sede da parte la non secondaria disputa attorno a quell’originale «entità dotata di un proprio ordinamento giuridico» che è l’Ue (cfr. G. Ferrara, L'Europa cui aneliamo, in Scritti in onore di Gaetano Silvestri, a cura di A. Ruggeri, Giappichelli, 2016).
Come noto, a seguito del Trattato sulla cooperazione e l’integrazione franco-tedesca, siglato ad Acquisgrana il 22 gennaio scorso dal presidente Macron e dalla cancelliera Merkel allo scopo di approfondire l’integrazione economica creando un’area franco-tedesca e regole comuni, il 19 febbraio i ministri dell’Economia dei due Paesi – Le Maire e Altmaier – hanno annunciato un ambizioso manifesto di politica industriale. Per riportare al centro della scena globale l’industria europea e tenere dunque il passo della concorrenza cinese e americana si propone la creazione dei futuri «campioni europei». A livello tecnologico, del resto, lo stesso Centro europeo di strategia politica (Epsc) non fa mistero dei gravi ritardi che l’Europa sconta nella competizione con Stati Uniti e Cina.
La strategia franco-tedesca si snoda quindi lungo tre direttrici. La prima prevede investimenti in ambito tecnologico, in particolare in alcuni settori chiave quali l’intelligenza artificiale, le biotecnologie, la guida autonoma, le piattaforme di connessione informatiche e l’aerospaziale. Con la seconda – in risposta alla bocciatura da parte della Commissione europea della fusione tra Siemens e Alstom in campo ferroviario – si intendono modificare le regole Ue in materia di concorrenza per agevolare la creazione di campioni industriali e tecnologici europei. La terza prevede infine la modernizzazione delle difese commerciali.
La strategia industriale franco-tedesca sembrerebbe quindi fare tesoro di quell’esperienza degli Stati Uniti nel settore delle tecnologie delle telecomunicazioni, secondo il già citato articolo del “Financial Times”. La creazione dei futuri campioni europei pone tuttavia due ordini di questioni correlate: la prima attiene ai trattati e più in particolare agli artt. 119-120 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Tfue), laddove cioè viene posta come fine e mezzo dell’Unione un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza.
Rifuggendo tuttavia da «qualunque tipologia tassonomica» – l’Unione europea «è un ordinamento sì, la cui effettività è però assicurata dagli Stati che la compongono» (G. Ferrara, cit.) – più che un tema di revisione dei trattati, i quali in più occasioni sono stati aggirati e la cui disciplina rende sostanzialmente immodificabili, si pone invero una seconda questione di natura propriamente politica. Sono i Paesi del Nord Europa a esprimere le maggiori preoccupazioni all’idea di intervenire sul mercato unico e sulla libera e leale concorrenza per competere con grandi imprese sussidiate e/o sostenute dallo Stato (come è del resto nel caso cinese). La commissaria Margrethe Vestager ha già ribadito lo scorso febbraio che non è compito dell’Antitrust comunitario promuovere i campioni europei e che «un’impresa non è in grado di essere competitiva all’estero se non è sottoposta a concorrenza in casa».
Alla luce di un esito elettorale europeo che accentua la tradizionale tensione tra la cooperazione intergovernativa e metodo comunitario, è lecito dubitare che sussistano quindi le condizioni politiche tanto per una revisione dei trattati quanto per quella conciliazione di interessi indispensabile all’esecuzione di un siffatto ambizioso progetto industriale.
Alla notizia che la Federal trade commission (Ftc) terrà sotto stretta osservazione Facebook e Amazon mentre il Dipartimento di Giustizia monitora Google e Apple, segue la sentenza della Corte distrettuale di San José, secondo la quale Qualcomm – tra i più importanti produttori di microprocessori degli Stati Uniti – ha violato le leggi antitrust. Dopo la sequela di scandali e polemiche degli ultimi anni, i giganti dell’economia digitale sono oggi esposti a livello globale a un’offensiva fiscale – come si è visto in occasione del recente G20 a Fukuoka –, a una stretta attività regolatoria in materia di accesso, proprietà, protezione e responsabilità dei dati e a un intervento a tutela della concorrenza. In quest’ultima direzione sembra volersi spingere lo stesso Trump, sollecitato tra gli altri dai democratici statunitensi, e più in particolare dalla candidata presidenziale Elizabeth Warren. La condizione di monopolio di cui godrebbero ad esempio Amazon nell’e-commerce e Google nella ricerca web dimostrerebbe, infatti, l’inadeguatezza della vigente disciplina antitrust.
Di fronte a questo rischio i soggetti interessati, ha scritto sul "New York Times" Tim Wu – docente di legge, scienza e tecnologia alla Columbia Law School –, avrebbero lanciato una sorta di avvertimento a quanti invocano maggiore concorrenza nel settore, la cui sostanza sarebbe: «Comprendiamo di aver commesso degli errori. Ma non ti rendi conto che, se ci danneggi, consegnerai il futuro alla Cina? A differenza dell'America, la Cina sostiene le sue imprese tecnologiche, perché sa che la competizione è globale e vuole vincere». La variante hi tech del «too big to fail», per la quale il compito dell’amministrazione sarebbe quello di «proteggere e sovvenzionare la squadra di casa», viene tuttavia demistificata da Wu: «Accettare questo argomento sarebbe un errore, perché tradisce e ignora le lezioni faticosamente conquistate sulla follia di una politica industriale incentrata sui “campioni nazionali”, specialmente nel settore tecnologico». Se venisse consentito a questi soggetti di dominare i mercati di riferimento e di comprare i concorrenti, verrebbe infatti meno quella volontà che ha sempre contraddistinto gli Stati Uniti di «permettere al nuovo di sostituire il vecchio».
In polemica con Wu è quindi intervenuto su “Forbes” Richard Epstein – docente di diritto alla New York University –, a giudizio del quale nessuno negli Stati Uniti intende promuovere i campioni nazionali sovvenzionando le principali aziende americane. Del resto, non è nelle disponibilità di nessuno «identificare quelle nascenti aziende che diventeranno i vincitori di domani». Le aziende del comparto tecnologico si aspettano invece che la disciplina dell’antitrust sia applicata in modo equo a tutte le società. Diversamente da quanto sostenuto da Wu, tali leggi non sono infatti uno strumento perfetto: molteplici sono gli esempi di un’applicazione talmente aggressiva da risultare controproducente. Si tratta insomma di «un’arma a doppio taglio», il cui imprudente utilizzo nel settore delle reti comporta «enormi perdite di efficienza».
La disputa sul ruolo dell’antitrust in Occidente rimanda in conclusione a una più ampia questione riguardante gli strumenti per contrastare la sfida cinese e i relativi adeguamenti statuali. Una scelta che la rivoluzione digitale impone. Seppur con tempi e modalità differenti, del resto, ogni mercato di settore – come ha più volte ricordato la componente dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato, Gabriella Muscolo – è o diventerà un mercato digitale.
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