Il tema dell’identità nazionale italiana non può prescindere dal momento fondativo dello Stato. È nella seconda metà dell’Ottocento che prendono forma alcuni caratteri costitutivi rimasti impressi nella dimensione che potremmo definire dello spirito pubblico nazionale. L’Italia, come è noto, nasceva inglobando al proprio interno linguaggi, interessi e culture tanto eterogenei quanto polverizzati in una miriade di orgogliosi localismi che non si percepivano tali. Questi aspetti mantenevano una parte considerevole della spinta centrifuga originaria, pericolosa in quanto il nuovo Stato si presentava con evidenti limiti di legittimazione politica dei nuovi ordinamenti.
Dal punto di vista politico-istituzionale, l’unificazione si era rivelata un’impresa complessa. Infatti, dietro il processo politico-diplomatico che aveva condotto alla nascita del regno d’Italia, non esisteva un qualsivoglia blocco sociale aggregante, a cominciare dall’aristocrazia, debole e assenteista, priva di ogni legame con il proprio retroterra rurale, e dunque incapace di porsi come riferimento etico-politico nei confronti delle classi popolari. Non meno problematica appariva la situazione dal punto di vista istituzionale, non essendo prestigiosi la Casa regnante, l’esercito e la pubblica amministrazione.
In tale contesto, dunque, fu la classe politica liberale a rappresentare, suo malgrado, il principale snodo istituzionale di questo difficile processo di legittimazione della nuova realtà politico-statuale. A partire dall’unificazione, leadership e classe politica assunsero un ruolo di supplenza di istituzioni poco legittimate e dunque, quasi immediatamente, si affermarono come primaria, sia pure debole (visto il modestissimo livello di partecipazione popolare alla vita pubblica), fonte di legittimazione delle istituzioni nazionali. Si trattava di una debole legittimazione tutta incentrata su una classe politica omogenea che acquisì ben presto un profilo trasformistico e poco conflittuale di fronte a una società civile che veniva percepita come estranea, se non ostile. Il rifiuto del conflitto come strumento di legittimazione e di costruzione d’identità divenne l’aspetto caratterizzante della cultura politica italiana, sempre più protesa alla ricerca di formule per neutralizzarlo.
È in questo contesto che nacque la profonda contraddizione in cui si trovarono di fronte la modernità legittimante delle istituzioni liberali (senza le quali non si comprendeva il senso della nascita di una nuova nazione nel cuore dell’Europa ottocentesca) e il rifiuto della classe politica delle inevitabili ricadute conflittuali che tale modernità portava con sé.
Pur da prospettive diverse, infatti, tutte le componenti del liberalismo escludevano la possibilità di affrontare il tema della nazionalizzazione della politica sul terreno della competizione aperta e della pluralità. Nei fatti, ma anche nelle teorizzazioni, la politica per i liberali, finito il conflitto con le forze dell’ancien regime, era il momento dell’affermazione delle istituzioni attraverso un’attenta opera di mediazione amministrativa. Il conflitto era ritenuto privo di senso, prima ancora che pericoloso, e pertanto una parte considerevole dell’impegno della classe dirigente liberale era indirizzata proprio a espungere dal sistema la possibilità di una risorgenza del politico, cioè del conflitto che ridefinisce le relazioni di potere all’interno di una determinata comunità. La “politica liberale”, dunque, intendeva “spoliticizzare” il Paese. L’educazione alla libertà e alla critica – premessa del pluralismo e parte integrante del patrimonio cromosomico del liberalismo – avrebbe potuto dare spazio alle “illegittime” aspirazioni delle forze clericali e socialiste.
Questo fu il punto di partenza del rifiuto della classe dirigente liberale di utilizzare l’imposizione e la diffusione del sistema politico (nell’accezione farnetiana di sistema di rapporti che si emancipa dalla rete delle relazioni della società civile per affermare un autonomo sistema di potere, legittimo ed efficace, in grado di ricomporre in termini esclusivamente politici i contrasti interni alla società) come potente, sebbene pericolosa, risorsa nel difficile processo di legittimazione del proprio ruolo e in quello parallelo e altrettanto complesso di nazionalizzazione del Paese. Si trattò di un decisivo e peculiare processo di "alienazione dalla politica", inteso come rifiuto di istituzionalizzare il ricorso a risorse esclusivamente politiche nel processo di nazionalizzazione del Paese. Tale prospettiva, se si eccettuano alcune fasi dei due dopoguerra, andrebbe forse considerata come una costante dell’identità italiana.
Su questi temi, l’autore ha in preparazione un articolo che uscirà sul primo fascicolo del 2011.
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