La battaglia per la conquista della città di Aleppo è ormai decisa. Da fine novembre, in poche settimane le forze armate siriane e i loro alleati libanesi, iraniani e russi hanno riconquistato quasi tutti i quartieri della cosiddetta «Aleppo est». Un’offensiva militare che è frutto dei lunghi preparativi messi a punto dalla scorsa estate: rafforzamento dell’assedio ai quartieri «ribelli», i movimenti di truppe verso la seconda città della Siria e l’arrivo di nuove forze russe nel Mediterraneo orientale. I tentativi dei ribelli di rompere l’assedio durante l’estate del 2016 sono durati poco, dimostrando i limiti strategici che le opposizioni armate ormai scontano in Siria. In particolare, la diminuzione significativa del sostegno estero, tanto delle monarchie del Golfo quanto dei Paesi Nato e soprattutto della vicina Turchia. Di fronte all’offensiva congiunta di tutte le forze pro-Damasco, nemmeno i comandi e le truppe ben disciplinate e armate dei radicali jihadisti di Fatah al-Sham (ex Jabhat al-Nusra, al-Qaida in Siria) sono riusciti a tenere unito il fronte dei ribelli. In modo significativo, non appena i governativi hanno interrotto i legami tra i comandi centrali e le unità locali, queste ultime hanno deciso di arrendersi o ritirarsi: sintomo di fatica, sfaldamento dei ranghi e soprattutto sfiducia nelle possibilità di riscossa. La prospettiva di arrendersi alla mercé delle forze governative, con le legittime incognite circa la propria incolumità fisica, deve essere sembrata comunque migliore che la morte certa in battaglia per sé e per i civili, ormai stremati dalla fame, dalla miseria e dalla violenza dell’assedio.
La resistenza degli ultimi, pochi quartieri, e i negoziati per l’evacuazione dei ribelli e dei civili verso il nord del Paese sono indicativi delle strategie militari e politiche che si sono imposte come vincenti negli ultimi mesi. E che probabilmente verranno replicate nel 2017. La vittoria militare resta il caposaldo di ogni negoziato politico da parte del governo di Damasco e dei suoi alleati: i nemici devono comunque accettare la resa. Da Homs ai sobborghi di Damasco fino ad Aleppo, la resa può essere negoziata oppure incondizionata. Se i ribelli, ancora in forze, accettano di abbandonare le posizioni e trasferirsi, senza armi pesanti, nella provincia di Idlib, ancora sotto controllo delle opposizioni, allora Damasco e Mosca si faranno garanti dell’incolumità fisica loro, e dei civili. Se i ribelli, invece, decidono di resistere ad oltranza e scontano la sconfitta militare, le condizioni della resa sono decisamente più dure: attacchi più intensi e indiscriminati, possibilità di trasferimento più limitato nel numero delle truppe e dei civili. Nel campo di Damasco, vige una sorta di divisione dei ruoli: Mosca sostiene la forza militare per giungere quanto prima a una soluzione negoziata della resa del nemico; Teheran e le sue milizie spingono invece per la vittoria militare e la resa incondizionata del nemico; il governo di al-Asad e i militari siriani scelgono di volta in volta in base alle singole circostanze.
Nel campo dei ribelli è più difficile individuare le diverse posizioni. I membri dell’esercito siriano libero sembrano pronti a negoziare la resa, anche su pressione del loro patron turco: infatti, l’evacuazione può avvenire tanto verso i territori settentrionali ora occupati dall’esercito turco quanto verso Idlib, dove però prevalgono le forze jihadiste. Queste ultime, invece, sembrano optare per la resistenza a oltranza, come segno della loro determinazione politica nei confronti della popolazione e delle forze che non sono state ancora conquistate dal Governo. Tuttavia, come in altri casi, è ben possibile che accettino di andarsene anche loro. L’andamento dei negoziati per l’evacuazione di quel che rimane di Aleppo est sembra confermarlo.
Tutte le forze in campo sono concordi nel ritenere che la battaglia di Aleppo segni una svolta nel conflitto, proprio per il carattere strategico della grande, storica città siriana: principale centro industriale, tecnologico e commerciale del Paese, è stato conteso per ben quattro anni, dal 2012. La vittoria evidente, però, non porta alla fine della guerra. Più a sud, l’Organizzazione dello stato islamico ha riconquistato la città di Palmira: centro archeologico e snodo commerciale ed energetico della Siria. IS dimostra ancora una volta la capacità di sfruttare ogni singola opportunità per colpire i nemici quando sono impegnati in altri fronti. Viste le sconfitte nel nord del Paese e in Iraq, IS cerca spazio e risorse ad ovest. Come preannunciato da al-Asad a novembre, nel fronte settentrionale, le prossime tappe del Governo saranno la riconquista della città di al-Bab, ad est di Aleppo, prima che arrivino le truppe turche o quelle curde. Poi procederanno contro Idlib, che ormai costituisce l’ultima provincia in mano ai ribelli. Qui, sarà ancor più decisivo il ruolo della Turchia, dato che rappresenta il retrovia strategico e diretto dei ribelli, jihadisti compresi. Da ultimo, rimane al-Raqqa, capitale siriana dell’organizzazione dello Stato islamico: in questo caso, determinanti saranno i rapporti con le forze curde.
Nonostante gli appelli «umanitari» dei Paesi Nato o delle monarchie del Golfo, è abbastanza evidente il loro disimpegno strategico dal campo di battaglia siriano: per lo meno nel centro e nel nord. La Turchia, la più coinvolta, è ormai ripiegata a difendere i propri confini e le aree adiacenti dalle forze curde piuttosto che i «grand design» di modellare una Siria secondo le proprie ambizioni geopolitiche. Washington e gli europei non hanno mezzi di influenza sul campo che siano determinanti e gli ultimi appelli umanitari o le accuse contro la Russia per «crimini di guerra» sono armi spuntate, ma soprattutto sono recepiti dalla popolazione siriana con rabbia e disinteresse dato che quando potevano intervenire in modo significativo non lo hanno fatto (estate 2013, inizio 2015). Non parliamo del solito «doppio standard» nei confronti dell’Arabia Saudita in Yemen.
Le minacce di una guerriglia infinita, a guida jihadista, sono reali nei limiti in cui le forze ribelli potranno ancora contare sul sostegno logistico di Paesi esterni: sebbene siano bene armati a Idlib e nel sud del Paese dipendono comunque dai rifornimenti provenienti da Turchia e Giordania, e dunque anche occidentali. A meno di svolte improvvise, è difficile pensare che la nuova amministrazione Trump voglia impegnarsi in Siria: nella logica convergente, e dal gusto ottocentesco, delle «grandi potenze», deve essere la Russia a disciplinare i propri alleati locali, ossia siriani e soprattutto iraniani. Intanto, Iran e Russia hanno dimostrato appieno la continuità e tempestività del loro sostegno a Damasco. Come in altre guerre, la determinazione politica deve comunque fare i conti con le risorse materiali per sostenere uno sforzo bellico. Altrimenti, l’estremo sacrificio resterà sì nella memoria storica delle opposizioni, ma ne determinerà la sconfitta organizzativa e politica per un lungo periodo. La differenza con i precedenti storici del massacro di Hama, in Siria, e dell’assedio di Beirut, in Libano, nel 1982 è sottile ma sostanziale.
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