Benché venga spesso richiamato, soprattutto quando si parla dell’Urss e della sua storia, il nome di Solženicyn non è tra quelli che vengono ricordati con particolare enfasi. Molti, perfino tra gli studiosi dell’epoca sovietica, a volte dimenticano addirittura di citarlo, o lo fanno con molti distinguo e circospezione.

Certamente non è stato amato quanto avrebbe voluto e neppure conosciuto e letto come la sua fama, nell’ultimo quarto del XX secolo, sembrava testimoniare. Se è stato un personaggio controverso e uno scrittore dibattuto, dall’impegno dubbioso e irrisolto, in gran parte ciò va ascritto ai tanti «volti» che Solženicyn ha saputo mostrare nel corso degli anni, o forse a quelli che da fuori si sono voluti scorgere in lui, probabilmente più coerenti e uniformi di quella che è stata la sua immagine pubblica.

La costruzione e la difesa della propria immagine, la coerenza morale e religiosa delle proprie convinzioni, l’intransigenza ideologica e politica che ne hanno fatto – non suo malgrado, ma con il suo stesso contributo – un simbolo quasi indipendente dalla propria produzione letteraria e attività di scrittore, hanno pesato nell’ambiguità dei giudizi che ha ricevuto, ma spesso anche nella superficialità dei riconoscimenti e delle critiche.

Per la mia generazione il ruolo storico di Solženicyn non è stato tanto legato all’esplosione internazionale del suo caso al tempo stesso letterario e politico (con la pubblicazione dell’Arcipelago Gulag e la sua espulsione dall’Urss a metà degli anni Settanta), ma all’impatto profondo, anche in questo caso letterario e politico al tempo stesso, che provocò la pubblicazione del suo primo romanzo, Una giornata di Ivan Denisovič, cinquant’anni fa, nel 1962, sulle pagine della rivista «Novyj mir» di Aleksandr Tdvardovskij; tradotto poi in italiano per la prima volta l’anno successivo (anche se molto più tardi l’autore rivide il testo aggiungendovi quanto era stato «tralasciato» dalla censura sovietica).

Si era al culmine, nel 1962, della politica chruščëviana del «disgelo», iniziata nel 1954 e battezzata così dal titolo del romanzo di Erenburg, debole ma significativo, apparso in quell’anno; e di quella destalinizzazione che Chruščëv aveva iniziato clamorosamente con il Rapporto segreto al XX Congresso del Pcus nel 1956, cui nell’ottobre 1961 aveva dato nuova linfa, al XXII Congresso, giungendo alla resa dei conti con il gruppo «antipartito» di Molotov, Kaganovič, Malenkov e Vorošilov. Proprio il 1962 aveva rappresentato, dopo l’estate, un momento di rilancio e di attuazione dei proclami rinnovatori lanciati al congresso. In settembre era stata la pubblicazione dell’articolo dell’economista Liberman – Piano, profitti, premi – a scuotere con la sua proposta di incentivi economici alle aziende per far crescere la produttività; in novembre quella del romanzo di Solženicyn, che squarciava ufficialmente per i cittadini sovietici il velo di menzogna che da decenni aveva oscurato il Gulag e la storia della repressione, dei campi di lavoro e prigionia e del terrore sovietico sotto Stalin.

Squarciava ufficialmente per i cittadini sovietici il velo di menzogna che da decenni aveva oscurato il Gulag e la storia della repressione, dei campi di lavoro e prigionia e del terrore sovietico sotto Stalin

In mezzo, purtroppo, vi era stata la disastrosa avventura della «crisi dei missili», cui fortunatamente Chruščëv aveva posto fine arrendendosi coraggiosamente all’embargo statunitense e alla minaccia di uno scontro nucleare, ma ponendo proprio allora le fondamenta della sua sconfitta che vertici militari e alta burocrazia del partito sancirono esattamente due anni dopo, nell’ottobre 1964, costringendo al ritiro il leader ucraino e ponendo fine entro breve tempo alle speranze di rinnovamento che la sua azione aveva fatto nascere nel decennio successivo alla morte di Stalin.

Si trattava, naturalmente, di speranze contraddittorie. Se negli anni successivi al XX Congresso vi era stata la penosa vicenda del Nobel a Pasternak, impedito a ritirarlo e perseguitato fino alla morte sopraggiunta nel 1960, ora, mentre si pubblicava il testo di Solženicyn, che rendeva di pubblico dominio il vissuto dei campi staliniani, si processava e richiudeva in ospedale psichiatrico il giovane poeta Josip Brodskij, poi condannato in un campo di lavoro nell’estremo Nord proprio nei mesi che precedettero la caduta di Chruščëv. Presto, con il processo ad Andrej Siniavskij, Abram Terc e Julij Daniel’, nel febbraio 1966, sarebbe iniziata la stagione della sempre più dura repressione del dissenso che avrebbe portato prima Brodskij e poi lo stesso Solženicyn a prendere coattamente la via dell’esilio.

A spingere Solženicyn a pubblicare il suo breve romanzo su «Novyj mir» non era stato solo il prestigio e il crescente successo di quel giornale, ma le parole che il suo direttore Aleksandr Tdvardovskij aveva pronunciato alla tribuna del XX Congresso nell’ottobre 1961, quando aveva individuato «nell’approssimazione, nell’incompleta rappresentazione dei molteplici processi della vita, dei suoi aspetti e dei suoi problemi, insomma, per farla breve, nella mancanza di profondità e di verità» il distacco e il ritardo della letteratura rispetto all’audacia e sincerità mostrata dal partito.

Il tema della verità è al centro della poetica e dell’ideologia letteraria di Solženicyn, del suo tentativo di ritornare in qualche modo al realismo classico, contrapposto al realismo socialista

Il tema della verità è al centro della poetica e dell’ideologia letteraria di Solženicyn, del suo tentativo di ritornare in qualche modo al realismo classico, contrapposto al realismo socialista proprio nella sua ambizione alla verità profonda rispetto alla menzogna o alla mera verosimiglianza di quest’ultimo, cercando al tempo stesso di rifondarlo attraverso la codificazione di un nuovo genere, quel «saggio di indagine letteraria» che costituirà l’ambizioso tentativo di Arcipelago Gulag.

Mauro Martini ha scritto con acume quanto proprio questa visione del realismo fosse alla base del dissidio di Solženicyn con Varlam Šalamov, come

«al di là dei molti pettegolezzi questo era il punto che rendeva impossibile ogni proficua collaborazione tra Solženicyn e Varlam Šalamov. L’ex recluso della Kolyma aveva riportato dalla sua esperienza il senso della disintegrazione dell’uomo e l’aveva tradotto nell’esplosione della narrazione in racconti tra loro speculari ma mai compatibili in un insieme. Per Šalamov la vera alternativa al suo modo di scrivere era quella rappresentata da Boris Pasternak con il suo Dottor Živago, romanzo apparentemente classico e invece sospeso tra prosa e lirica, tra realismo e fantastico. Solženicyn invece era convinto che ogni citazione, perché di citazioni di testimonianze è tessuto l’Arcipelago, potesse ritrovare un significato nuovo, di verità autentica e non di verità documentaria, all’interno di un percorso narrativo complesso, modellato, nella sua successione di caduta, ribellione e riscossa, su un riecheggiamento della letteratura religiosa e capace di condurre a una catarsi finale favorita non dalla storia ma dalla parola letteraria. Non si capirebbe altrimenti l’interesse quasi morboso dell’autore di Primo cerchio per la ricchezza della lingua russa e il suo sforzo negli anni dell’emigrazione per la compilazione di un dizionario dei termini cancellati o snaturati nel periodo sovietico. Sforzo dettato dalla consapevolezza che la prima e più radicale menzogna del comunismo consiste nell’impoverimento della capacità espressiva della lingua».

Solženicyn è stato un «caso» per l’Unione Sovietica, ma anche e forse soprattutto per l’Occidente. Nel Paese del comunismo lo scrittore ha rappresentato una tra le molte voci di opposizione al regime, forse non la più autorevole ma certo quella simbolicamente più adatta a segnare lo scontro che nella prima metà degli anni Settanta divise lo stesso gruppo dirigente sovietico sulla strategia da prendere contro il dissenso; rendendo tale questione drammaticamente centrale non solo nella vita interna ma nelle relazioni internazionali e creando il presupposto – proprio per controbilanciare le scelte fatte sulla pelle di Brodskij, Solženicyn e tanti altri – di quella firma al Patto di Helsinki con cui l’Urss sottoscrisse anche, inconsciamente, l’inizio della crisi che il decennio successivo si sarebbe trasformata nel crollo definitivo del mondo comunista.

In Occidente Solženicyn fu un caso diverso, perché costituì la cartina di tornasole della coscienza di quel tormentato rapporto con l’Urss che vi si era costruito fin dal 1917

In Occidente Solženicyn fu un caso diverso, perché costituì la cartina di tornasole della coscienza di quel tormentato rapporto con l’Urss che vi si era costruito fin dal 1917, tanto sul versante liberale quanto su quello della socialdemocrazia e, ancor più, del comunismo occidentale. La battaglia culturale che attorno alla pubblicazione di Arcipelago GULag si sviluppò in Francia, grazie alla vena polemica dei «nouveaux philosophes», riguardava infatti la mancanza di verità e la menzogna che in Occidente avevano dominato rispetto all’esistenza e alla natura dei campi sovietici. La posta in gioco non era solo il riconoscimento – finalmente pieno e senza infingimenti – di una realtà che si conosceva da tempo e che proprio Una giornata di Ivan Denisovič aveva saputo svelare oltre un decennio prima e Un mondo a parte di Gustaw Herling addirittura due decenni prima. In gioco era il silenzio passato, la lunga e tenace giustificazione con cui si era voluto disconoscere il carattere terroristico e totalitario del regime comunista e staliniano in particolare.

In Francia il velo sul Gulag venne squarciato quasi d’improvviso, e la tradizione comunista sembrò svanire – o almeno rimpicciolirsi fino all’inconsistenza culturale – nel giro di pochi anni, grazie al ruolo disvelatore e catartico che aveva avuto Solženicyn, simbolo incarnato della verità dei campi; pur se non furono in molti coloro che si cimentarono davvero nella lettura del suo lungo, appassionato ma anche difficile e complesso «saggio di indagine letteraria», costruito su migliaia citazioni e memorie, su una raccolta impressionante di documenti e testimonianze che mettevano in discussione non soltanto l’universo concentrazionario sovietico ma la natura stessa del regime comunista e della rivoluzione.

Fu quest’ultimo aspetto a segnare, in Italia, la «sfortuna» di Solženicyn. La sua articolata e profonda narrazione accusatoria, fortemente ideologizzata e con accese venature religiose proprio per meglio combattere l’ideologia comunista, venne considerata non «all’altezza» della lenta riflessione critica – ma sempre ancorata a un duro storicismo e quindi mai autocritica – che la sinistra italiana, con rare eccezioni, stava conducendo sull’Urss e sulla sua storia. Tra queste eccezioni merita di essere ricordato Lucio Lombardo-Radice, che nel 1972 pubblicava un libro sul ruolo politico-sociale della letteratura attraverso le figure di quattro intellettuali accusati dalla politica culturale dei Paesi socialisti (Kafka, Bulgakov, Kundera e, appunto, Solženicyn); oltre alla tradizione socialista libertaria che aveva da anni, inascoltata ed emarginata, cercato di far convergere l’attenzione sulla natura strutturale e non epifenomenica dei campi sovietici. Quanto alla tradizione liberale non esisteva, in Italia, nulla di paragonabile a figure come Berlin o Aron e la battaglia per la «verità» sul Gulag riproponeva la polemica anticomunista degli anni Sessanta o ancor prima, ma senza la passione e la forza morale che il provocatorio j’accuse di André Glucksmann aveva saputo suscitare in Francia.

Negli anni della crisi e del crollo del comunismo, diversi intellettuali avrebbero ammesso che non avevano letto Solženicyn, così come vent’anni prima non avevano letto Koestler

Più tardi, negli anni della crisi e del crollo del comunismo, diversi intellettuali avrebbero ammesso che non avevano letto Solženicyn, così come vent’anni prima non avevano letto Koestler, perché il pregiudizio ideologico e l’appartenenza politica costituivano le sole coordinate di «verità» entro cui potevano esercitare il loro approccio critico. Questo è forse uno dei motivi per cui è andata disattesa per tanto tempo quella semplice constatazione che faceva scrivere nel 2001 a Barbara Spinelli – nell’introduzione all’Arcipelago Gulag per i Meridiani Mondadori: «Nessuno che legge le pagine che seguono può capire come sia stato possibile credere ancora nel comunismo, una volta visti in faccia i Gulag scaturiti da un’idea di illimitata rigenerazione dell’umanità» (B. Spinelli, La rivolta contro Humpty Dumpy, in A.I. Solženicyn, Arcipelago Gulag, Mondadori, 2001, p. XXXIV).

Se in Urss Solženicyn rappresentava la punta dell’iceberg, quella visibile e conosciuta, della letteratura sul Gulag, cui si accompagnavano le centinaia di testimonianze clandestine apparse nei lunghi anni bui della pratica del samizdat, poi divenute migliaia tra gli anni della perestrojka e della glasnost’ gorbačëviana e quelli dell’immediato postcomunismo, in Occidente lo scrittore esiliato costituiva la memoria vivente del Gulag, il simbolo di tutti gli zek che avevano attraversato per i più diversi motivi l’esperienza concentrazionaria sovietica.

La conoscenza successiva della letteratura del Gulag, e in particolare la pubblicazione de I racconti di Kolyma di Varlam Šalamov, hanno permesso di scoprire ancora più in profondità quale fosse la «verità» dei campi sovietici. Tra i due scrittori vi fu un rapporto contraddittorio e complesso, che Solženicyn contribuì, oltre un decennio dopo la morte di Šalamov all’indomani del suo rientro in Russia nel 1994, a offuscare con critiche ingenerose, frutto della sua ultima identificazione patriottica e nazional-religiosa con la tradizione rurale russa.

Ma al di là dei meriti letterari o di questioni – come i rapporti tra i due scrittori – che solo con difficoltà gli stessi studiosi di letteratura russa stanno cercando di affrontare e dipanare, bisogna riconoscere che, rispetto al Gulag, Solženicyn e Šalamov restano figure complementari sia sul terreno letterario sia su quello dell’analisi e della rappresentazione.

Solženicyn ci appare ancora – per quanto la sua ultima immagine e la sua ultima copiosa e non facile produzione letteraria possano oscurarlo – come un testimone decisivo del secolo scorso, un testimone politico-letterario, come lo sono state tante delle figure maggiormente impegnate e significative della cultura del Novecento. Un testimone che è stato decisivo per portare a tutti, direttamente o indirettamente, la prima ed elementare verità sul Gulag, quella che rotto un velo di omertà e menzogna durato troppo a lungo e che ha permesso di riappropriarsi, pur tra mille contraddizioni, di una maggiore e consapevole verità sulla storia del comunismo.

Sbaglia chi crede che nei testimoni occorra identificarsi e con essi concordare per poterli ritenere tali. Se così fosse si tratterebbe di una ricerca, come lo è stato troppo a lungo per buona parte del secolo XX, di paladini di una sola causa, di santi o martiri buoni per una sola religione. Solženicyn, al contrario, appartiene all’umanità intera proprio perché testimone. E chi non ha la forza o la voglia di affrontare le migliaia di pagine di Arcipelago Gulag, corra almeno a leggere o rileggere quel piccolo intenso romanzo – Una giornata di Ivan Denisovič – che proprio cinquant’anni fa ha svelato a tutti, dentro e fuori dell’Urss, l’esistenza e la natura del Gulag staliniano.

[Articolo uscito sul numero 1/2013, 465, a. LXII]