In natura l’uranio, a differenza del petrolio, è una risorsa diffusa nella crosta terrestre, ma in concentrazioni minime, tanto da non renderne economicamente conveniente l’estrazione. Per dare un’idea: in media una tonnellata di roccia e suolo ne contiene da 1 a 5 g, ma affinché sia considerata economicamente attrattiva dovrebbe contenerne circa mezzo kg. Dalla concentrazione di uranio (il cosiddetto “grado” o “tenore”) dipendono i costi di estrazione: crescono progressivamente, in termini economici, ambientali (maggiori emissioni di CO2, consumi di acqua ecc) ed energetici, al diminuire del grado di uranio e quando lo si trovi presente in minerali difficili da trattare (come il granito o le rocce vulcaniche).
Una centrale nucleare di medie dimensioni consuma circa 160 tonnellate di uranio in un anno: tale quantità richiede che vengano processate circa 160.000 tonnellate di materiale, senza includere i lavori di miniera. Fin dalla sua origine (che può avvenire sia in miniere sotterranee sia a cielo aperto oppure attraverso lisciviazione) l’uranio porta dunque con sé uno zaino ecologico non indifferente, che sotto forma di costi esterni viene scaricato sul Paese produttore.
Le maggiori riserve di uranio sono localizzate in pochi Paesi: Australia (25%) Kazakhstan (17%), Canada (9%), Usa (7%), Sud Africa (7%), Namibia (6%). Secondo i dati del 2008 della World Nuclear Association, i primi tre detengono circa il 60% della produzione mondiale di uranio.
Generalmente le risorse di uranio sono classificate in convenzionali e non. All’interno della prima tipologia sono presenti le risorse ragionevolmente accertate, la cui esistenza è provata e la cui estrazione può avvenire sfruttando le tecnologie disponibili. Questo tipo di risorse si differenzia ulteriormente in base ai costi di estrazione (<40$/kg di uranio naturale [U], 40-80 $/kg U e 80-130 $/kg U). Le risorse ragionevolmente accertate con costi di estrazione al di sotto dei 40$/kg sono definite anche riserve. Fanno parte delle risorse convenzionali anche quelle stimate, pronosticate e speculative, che tuttavia sono caratterizzate da maggiore incertezza e da costi di estrazione in genere più elevati.
Le non convenzionali sono invece costituite da uranio presente in concentrazioni molto basse, come nei fosfati e negli oceani, e dalle fonti secondarie, di cui fanno parte anche l’uranio delle testate nucleari dismesse e i residui di uranio impoverito riarricchito. Ai fini del soddisfacimento della domanda mondiale dei reattori (che dalla metà del 1980 è superiore alla produzione), il ruolo delle fonti secondarie è rilevante, poiché sopperisce alla mancanza di uranio da miniera. Quest’ultimo nel 2006 arrivava a coprire solo il 60% del fabbisogno annuale mondiale dei reattori in funzione (che era di circa 66.500 tonnellate), mentre nel 2009 toccava il 76%.
Per quanto riguarda i prezzi, dopo oltre vent’anni di quasi costante declino, a partire dal 2004 l’andamento si è invertito (40$/kg) e nel 2007 si sono toccati valori mai registrati prima (fino a 300 $/kg). L’incremento ha stimolato intensamente le spese e i progetti nell’attività estrattiva, determinando una tendenza crescente di quantitativi di risorse di uranio conosciute e stimate (al 1o gennaio 2009 sarebbero pari a 6,3 milioni di tonnellate, con un incremento rispetto al 2007 di 800.000 tonnellate). Secondo alcuni analisti, è necessaria una rilettura critica di questo trend, poiché sono incluse anche risorse con un grado di uranio molto basso, difficile da estrarre e con tempi lunghi di trasporto. Altre analisi evidenziano inoltre la riduzione di scoperte di depositi consistenti a partire dagli anni Ottanta e l’elevata probabilità che i costi di estrazione aumenteranno a causa della necessità di dover scendere a profondità maggiori e della diminuzione del grado medio di uranio.
Dopo l’estrazione in miniera l’uranio subisce diversi processi, quali la polverizzazione, la conversione, l’arricchimento, per poi essere trasformato in combustibile inserito in barre di zirconio che verranno caricate nel reattore della centrale nucleare. È evidente che ognuno di questi processi aggiunge una ulteriore voce di costo a quello del combustibile utilizzato nelle centrali. Considerando i costi di una centrale nucleare dalla sua nascita alla sua disattivazione (che concorreranno poi a determinare il prezzo del kWh), la voce maggiore (pari al 60%) è quella destinata all’investimento iniziale per la costruzione dell’impianto, mentre il costo del combustibile incide per circa il 20-26%.
I processi di liberalizzazione dei mercati elettrici hanno spinto le aziende produttrici di energia nucleare a perseguire una maggiore efficienza e a ricercare a prezzi più bassi il combustibile. La fase di riorganizzazione avvenuta nella filiera che produce il combustibile nucleare, che ha portato alla chiusura degli impianti meno efficienti e a una maggiore concentrazione dell’offerta in poche grandi imprese, ha però ridotto l’offerta (mancanza di capacità di impianti di arricchimento e di tecnici specializzati ecc.), il che potrà costituire un limite allo sviluppo futuro dell’energia nucleare. Solo per soddisfare la domanda dei reattori esistenti, l’attuale capacità di arricchimento nei prossimi anni dovrà essere raddoppiata, al di là dell’uranio ottenuto per estrazione, poiché le risorse secondarie ci si attende cominceranno a diminuire dal 2013.
Il ritorno di interesse per il nucleare [http://www.mulino.it/rivisteweb/scheda_articolo.php?id_articolo=32407] non può dunque ignorare le incertezze collegate alla disponibilità e alla qualità delle risorse necessarie. Sia per coprire la domanda attuale di uranio, sia in vista di un assai probabile aumento del suo prezzo dovuto alla progressiva riduzione delle scorte, se è vero che a scarsità di risorsa corrisponde un prezzo crescente. Inoltre, un’analisi complessiva della questione mette in luce come vengano ridimensionati anche i vantaggi ambientali del nucleare in termini di emissioni nocive. Il maggior consumo energetico in miniera, nel trasporto e nella fase di arricchimento vera e propria, comporta una maggiore emissione di CO2, visto il processo alimentato prevalentemente da energia elettrica prodotta ancora in gran parte da combustibili fossili.
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