L’approvazione definitiva della legge che stabilisce il diritto alla continuità educativa dei bambini in affido familiare è importante non solo sul piano del riconoscimento dei diritti dei bambini, ma anche perché tenta di porre rimedio a una situazione di fatto per molti versi insostenibile. In Italia, infatti, circa il 60% degli affidi dura più dei due anni previsti dalla normativa e di questi circa i 3/5 durano più di quattro anni. Nella maggior parte dei casi, l’esperienza dell’affido non si conclude con il rientro del minore nella famiglia di origine, ma, a seconda delle situazioni, con un prolungamento sine die dell’affido fino al raggiungimento della maggiore età da parte del minore o, nelle realtà più problematiche ma anche più definite, con la dichiarazione di adottabilità del minore.
Quindi, quando la situazione motivante l’allontanamento dalla famiglia originaria si risolve in modo negativo, vi è il rischio che il bambino sia sottoposto a un nuovo strappo doloroso, dovendo “migrare” verso una terza famiglia. In questo modo, viene negato al minore il diritto fondamentale alla continuità degli affetti che, così come viene rispettato adottando tutte le cautele possibili nel decidere l’allontanamento del minore dalla sua famiglia naturale, deve essere anche considerato nel caso dell’allontanamento del bambino dalla famiglia affidataria, in cui il minore ha trascorso diversi anni della sua breve esistenza. La nuova legge non solo cerca di evitare al bambino questa ulteriore esperienza dolorosa, ma potrà anche consentire una più facile soluzione alle numerose situazioni ibride di affido prolungato, garantendo stabilità affettiva e chiarezza giuridica ai minori in modo che possano essere meglio tutelati i loro interessi.
Stabilendo che “l’affidatario o l’eventuale famiglia collocataria devono essere convocati, a pena di nullità, nei procedimenti civili in materia di responsabilità genitoriale, di affidamento e di adottabilità relativi al minore affidato ed hanno facoltà di presentare memorie scritte nell’interesse del minore”, la norma sembra finalmente riconoscere che, al di là delle tante diatribe ideologiche, la responsabilità genitoriale può essere esercitata anche da figure diverse dal genitore naturale o adottivo; in tal modo, vengono assicurati alla famiglia affidataria il diritto e la possibilità di continuare a seguire nel tempo il bambino che ha custodito ed educato in una delle fasi più critiche della sua esistenza, anche nel caso in cui questi venga inserito in altri contesti familiari.
Tutto risolto, dunque? Naturalmente no: la norma, nel suo attuarsi, dovrà essere calata in tante situazioni specifiche e necessiterà dell’azione intelligente dei tanti street level manager che dovranno applicarla (ad esempio, giudici, psicologi, assistenti sociali, associazioni genitoriali, gli stessi affidatari), mentre, sul piano giuridico, potrà indirizzare verso un’ulteriore revisione normativa.
Di fatto, la nuova legge sembra riconoscere l’esistenza di due tipi di affido: il primo è quello tradizionale e temporaneo che si conclude con il rientro in famiglia dopo un periodo relativamente breve; il secondo è da considerarsi una sorta di esperienza pre-adottiva. I giudici e i vari operatori sociali dovranno essere in grado di stabilire a quale delle due categorie appartenga l’affido quanto prima possibile, auspicabilmente già nel momento in cui decidono l’allontanamento del minore dalla sua famiglia di origine, proprio per evitare che, nei fatti, si ricreino le situazioni di discontinuità affettiva. Nelle due tipologie di affido menzionate, infatti, possono essere molto diversi i criteri con i quali viene scelta la famiglia affidataria (ad esempio, la sua possibilità/volontà di trasformarsi in famiglia adottiva), gli interventi nei confronti della famiglia di origine (più o meno tesi al recupero della sua capacità genitoriale), la regolazione dei rapporti del bambino con la sua famiglia di origine (ad esempio, numero e modalità degli incontri), l’azione di sostegno da parte dei servizi o delle realtà del terzo settore nei confronti degli affidatari e della famiglia di origine. È evidente, pertanto, come l’efficacia della nuova legge dipenda in gran parte dalla capacità valutativa e progettuale dei servizi che sono chiamati ad attuarla.
Il passaggio dall’affido all’adozione resta, comunque, una fase di transizione problematica e delicata che la nuova norma, da sola, non può certo risolvere.
Nel periodo dell’affido, infatti, se si escludono i casi molto gravi di semi-abbandono permanente da parte delle famiglie di origine (situazioni in cui sono coinvolti più spesso i ragazzi più grandi), il filo dei rapporti fra il minore e la sua famiglia naturale non si spezza mai del tutto, pur assumendo forme e periodicità differenti, che possono andare dall’incontro episodico in un luogo neutro e protetto agli incontri periodici, fino a giungere ai fine settimana e ad alcuni periodi di vacanza trascorsi dai minori nella propria famiglia di origine. In generale, i bambini conoscono i loro genitori, li frequentano con una qualche assiduità, conservano il loro cognome, ne mantengono un’immagine spesso idealizzata, vivono il conflitto fra modelli educativi anche molto differenti. L’idealizzazione della relazione coi figli si riscontra, naturalmente, anche nelle famiglie di origine, che, specialmente nei casi in cui i genitori non sono pienamente consapevoli della loro incapacità a svolgere il ruolo genitoriale, desiderano il ritorno dei loro figli e si oppongono sia alla reiterazione dell’affido sia, tanto più, alla sua trasformazione in adozione.
Per tutte queste ragioni la trasformazione dell’affido in adozione resta comunque problematica. Se nell’adozione classica il bambino non conosce i suoi genitori e non ne porta il cognome perché è orfano o perché è stato abbandonato e/o non riconosciuto, nel caso di un minore in affido che venga adottato si tratta di interrompere relazioni che spesso erano proprio assicurate e gestite dalla famiglia affidataria, oltre che di vedere sancita, anche mediante il cambiamento del proprio cognome, la rottura con le proprie radici (si pensi quanto questo possa essere traumatico se il bambino appartiene a una cultura differente).
A noi sembra, quindi, quanto mai opportuna la piena legittimazione anche nel nostro ordinamento di una forma di open adoption presente nei Paesi anglosassoni e francofoni e che in Italia è stata sperimentata solo come prassi giudiziaria da alcuni tribunali con il nome di “adozione mite”. Si tratterebbe di prevedere, cioè, che venga mantenuto anche dopo l’adozione un legame fra il bambino e la sua famiglia biologica, nei casi in cui la famiglia di origine non sia in grado permanentemente di prendersi cura del bambino ma abbia instaurato con questi, comunque, un rapporto positivo, verificato durante il periodo dell’affido. La famiglia di origine potrebbe continuare a restare in comunicazione con la famigli adottiva nelle forme e con la frequenza stabilite dagli accordi pre-adottivi, che possono essere rinegoziati con il passare del tempo.
Se la nuova legge ci sembra essere un passo avanti sulla strada della “giustizia minorile mite”, fondata sulla comunicazione e sulla collaborazione di tutti gli attori coinvolti nel processo decisionale, per amplificarne gli effetti positivi bisognerebbe, forse, pensare anche a una “genitorialità mite”, in cui il legame di affetto e cura nei confronti di un figlio non sia necessariamente pensato come possesso esclusivo, ma si apra a forme di plurigenitorialità qualora queste possano garantire meglio il diritto del bambino alla continuità affettiva.
Riproduzione riservata