«Confidiamo che fra i lettori ci sia chi colga, e senza bisogno di sottolineature da parte nostra, e per la pura capacità di emanazione delle parole e delle immagini, il motivo per cui questi libri e non altri per cinquant’anni si sono presentati sotto il nome di Adelphi». Così scriveva Roberto Calasso, in coda alle tre pagine di presentazione del volume di quasi ottocento con cui la sua casa editrice celebrava i cinquant'anni. Adelphiana. 1963-2003 si intitolava, richiamandosi ad Adelphiana 1971 – libro rosso oggi introvabile, «possibile primo numero di una rivista, almanacco, dichiarazione programmatica».

Il riferimento di Calasso nel cinquantesimo era ai libri e agli autori scelti nel librone celebrativo per riannodare, anno dopo anno, la produzione di Adelphi. Ma può, più in largo, applicarsi a tutto il catalogo di chi ha fatto della sua riconoscibilità anche fisica una caratteristica imprescindibile, dovuta certo non al caso ma al lavoro paziente degli adelphi della prima ora, con largo anticipo rispetto al momento in cui il marchio viene depositato nel giugno del 1962.

Come è facile immaginare, di date è costellato un volume come quello scritto dalla storica delle istituzioni culturali Anna Ferrando, corposo e denso di riferimenti, intitolato Adelphi. Le origini di una casa editrice (1938-1994) (Carocci, 2023, pp. 448). Date che si intersecano con i nomi dei protagonisti delle stagioni di una grande intrapresa culturale, dei suoi autori, dei suoi libri. Da lettori, possiamo ritrovarci negli uni e negli altri, ciascuno con i propri «affetti». Rintracciando in fondo noi stessi e il nostro rapporto con gli uni e con gli altri, in una densa ricostruzione che si svolge su più livelli. Quello di una casa editrice. Quello della storia culturale di un Paese. Quello dei mestieri del libro.

All’uscita della prima Adelphiana la casa editrice milanese si avviava verso la fine del suo primo decennio. La sua pubertà è ormai giunta al termine ma con essa non sono finiti i problemi di bilancio, anzi. Sta per avere inizio la lunga epoca di Roberto Calasso, direttore editoriale da lì in avanti, sino alla morte, avvenuta nel luglio del 2021. La figura di Calasso, nota anche ai più distratti lettori adelphiani, emerge già nei primi tempi della storia della casa della luna nuova, dopo essersi fatta notare nell’ambiente quando il futuro autore delle Nozze di Cadmo e Armonia è ancora studente.

Il libro mette bene in luce il contesto culturale e storico nel quale si sviluppano i rapporti tra adelphi, a cominciare da quello strettissimo tra Roberto (Bobi) Bazlen e Luciano Foà

A indispensabile ragguaglio di una comprensione meno parziale della storia, il libro di Ferrando mette bene in luce il contesto culturale e storico nel quale si sviluppano i rapporti tra adelphi (ἀδελφοί, «fratelli, sodali»), a cominciare da quello strettissimo tra Roberto (Bobi) Bazlen e Luciano Foà. Del primo sappiamo qualcosa dal piccolo libro che gli ha dedicato proprio Calasso, di cui già ha detto tra gli altri Alberto Saibene. Come ricorda Ferrando, «l’impegno di Bazlen per Adelphi era totalizzante […] un lavoro diuturno e multidirezionale ricchissimo». Non da meno può considerarsi l’impegno di Foà, su più piani, incluso quello gestionale, che si profila lungo tutto il tragitto del libro. Adulto professionalmente in Einaudi, per anni direttore generale a fianco di Giulio Einaudi, sino a una rottura che sarà all’origine del coinvolgimento nella nuova iniziativa editoriale, con molte implicazioni personali, incluso il trasferimento da Torino. È indubbio che alle origini di Adelphi ci sia il forte legame umano e intellettuale tra i due, Bobi e Luciano. Guardano a un progetto editoriale del tutto nuovo negli anni poco successivi alla fine della Seconda guerra mondiale, anni tutt’altro che facili per decifrare il futuro possibile di un’impresa del genere; dunque non senza tentare, poi, un vero e proprio azzardo. Il sodalizio genera un equilibrio perfetto: da un lato Bazlen, lettore vorace, triestino che risente dell’atmosfera mitteleuropea e innovativa della città di origine, procacciatore di «libri unici». Dall’altro Foà, di tredici anni più giovane, in grado di decifrare alla perfezione lo spunto e trasformarlo in un oggetto fisico a lungo pensato e modellato. Non si creda tuttavia che il contributo di Foà non sia anche di tipo ideativo e più strettamente culturale, non foss’altro per il fatto di essere figlio del fondatore dell’Ali, l’Agenzia letteraria italiana, più volte richiamata nel testo, che durante il Fascismo cercò di introdurre in Italia libri stranieri, inglesi e francesi in particolare, restando poi a lungo decisiva nella definizione dei cataloghi di molti editori italiani. Il ruolo dell’Agenzia, e i relativi sostegni economici che al figlio del fondatore ne deriveranno, torneranno più avanti nel testo, laddove Ferrando descrive le difficoltà a far quadrare i conti di Adelphi e, in particolare, la crisi di liquidità che sorge dopo l’uscita di Roberto Olivetti, figlio di Adriano, ultimo del terzetto identificato come quello dei fondatori. Sarà il passaggio al sistema di distribuzione di Fabbri Editore, il 1° gennaio 1977, a rappresentare «il volano per rompere con il lungo periodo di conti in rosso», promuovendo una diffusione capillare dei libri Adelphi su tutta la Penisola (p. 265).

Se c’è la storia di un editore, nel lavoro di Ferrando ciascuno di noi può anche individuare la propria storia di lettore di alcuni di quei libri

Se c’è la storia di un editore, nel lavoro di Ferrando ciascuno di noi può anche individuare la propria storia di lettore di alcuni di quei libri. Belli, come riconosciuto da tutti, ché un libro deve essere curato in ogni particolare fisico e sin dalla copertina se, come scrisse Leonardo Sciascia, «nei suoi spazi [negli spazi della copertina] l’editore e il lettore si danno il buongiorno». Potrebbe essere un gioco da bibliomaniaci, innocuo e tutto sommato divertente. Il primo libro di Adelphi che hai comprato (il mio fu Burney, Cella di isolamento) o quello che hai riletto più spesso (Le voci di Marrakech di Canetti, credo). Simenon (su cui ci sarebbe da scrivere un capitolo a parte, ma che è comunque trattato da Ferrando, Fellini incluso) non vale.

Tornando alla storia delle origini, è tutta nel libro di cui abbiamo scelto di parlare, non foss’altro perché, come detto, si tratta di un lavoro ricchissimo da più punti di vista. Un lavoro che, in più punti, aiuta a ricostruire passaggi rilevanti della storia dell’editoria e della cultura italiana, con alcuni utili richiami all’evoluzione della cultura di massa a partire dagli anni Cinquanta, quando diverse realtà editoriali nascono (Il Saggiatore voluto da Alberto Mondadori, ad esempio, nel 1958; mentre quattro anni prima, nel giugno del ’54, e ci si perdonerà il richiamo, è la volta del Mulino come casa editrice, tre dopo la fondazione della rivista), sino alla crisi di Einaudi, a lungo tenuta nascosta dall’editore e poi esplosa nel 1994 con l’assorbimento nella Mondadori, la cui maggioranza Silvio Berlusconi aveva acquistato in Fininvest tre anni prima.

Un cenno, per quanto lo spazio consente, va infine fatto alla rilevanza di un lavoro come questo di Anna Ferrando per chi svolge i mestieri del libro, quello di editore in particolare. Dalla scelta dei titoli, alla cura della realizzazione dei volumi, ai problemi legati alla diffusione e alla vendita, agli aspetti più propriamente gestionali, tutti i gradini della scala vengono ripercorsi. C’è, in questo libro, il lavoro di una casa editrice e in una casa editrice, incluse le non poche difficoltà e, qua e là, le schizofrenie. C’è l’eterno dibattito tra collane sì e collane no, risolto in parte per un editore che ha saputo definire una identità così chiara e riconoscibile come Adelphi affidandosi a scelte precise e di lungo periodo. A questo si aggiungono i criteri, a volte potremmo dire i moti dell’animo, per individuare libri in grado di sostenere il fatturato ma senza intaccare una storia e una immagine. (Di grande interesse i numeri su tirature e vendite proposti dall'autrice.) Un logo e una bella grafica aiutano ma non possono bastare, soprattutto non possono bastare senza teste editoriali in grado di scegliere e, a volte, scommettere. Non manca il rapporto con gli azionisti, che a volte deve tenere conto degli autori. Non tutti gli autori hanno la stessa comprensione mostrata da Elena Croce, figlia di Benedetto e autrice rilevantissima nel percorso dell’editrice della luna nuova, nell’accogliere l’invito contenuto in una lettera con una richiesta d’aiuto per un premio letterario, come quella ricevuta da Luciano Foà. Era luglio del 1968, la lettera si chiudeva così: «Pensi che il vincitore di questo premio vende di solito dalle 10 alle 30 mila copie! Per noi sarebbe una manna. Meno soldi si chiedono ai soci (dell’Adelphi) e più si è liberi di fronte a loro, e quindi meno fastidi si hanno!» (p. 161).

Appunto, la libertà di un editore: dai vincoli del mercato, per quanto possibile, dalle manie del momento, dagli schemi consolidati ma non più adeguati, dalle visioni superate da un sistema del libro più che mai mutevole e difficile. Forse proprio in questo modo, interpretandone la capacità di restare ancorati a una propria, irripetibile seppur mutevole storia, unita a scelte editoriali capaci di disegnare una traiettoria ben riconoscibile e coerente con i tempi, si possono individuare gli editori che ancora oggi sanno fare lavoro culturale. Che Adelphi sia uno di questi è fuori di dubbio.

 

 

[Oltre alla già citata recensione di Alberto Saibene al volume di Roberto Calasso, Bobi, va segnalata l'intervista curata da Eleonora Landini e Mario Ricciardi a Matteo Codignola, apparsa sul numero 1/22, volume dedicato alla vocazione intellettuale.]