«Le donne si presentavano dopo la mezzanotte, uscivano di casa con il buio, quando nessuno poteva vederle: arrivavano in ospedale con ferite gravissime, lacerazioni, emorragie, infezioni, accadeva ogni sera, ormai eravamo preparati: quelle donne, a volte quelle ragazzine, erano le reduci di aborti clandestini avvenuti chissà dove e con chissà quali mezzi, facevamo il possibile per aiutarle, alcune si salvavano ma altre morivano, e molte restavano lesionate per sempre».
Sono queste le parole, riportate da «Repubblica» nel 2011, con cui il ginecologo Carlo Flamigni descrive la situazione italiana prima dell’approvazione della legge 194/78, la legge che depenalizzerà e regolamenterà l’interruzione volontaria di gravidanza e che consentirà alle donne di abortire all’interno di una struttura pubblica (ospedale o poliambulatorio convenzionato con la Regione di appartenenza).
Prima di allora, per la legge italiana la contraccezione era illegale e l’interruzione volontaria di una gravidanza indesiderata era un reato, punito in base al Codice Rocco del 1930 come «delitto contro l’integrità della stirpe». Questo comportava – sia per l'esecutore dell'aborto, sia per la donna che avesse abortito – la reclusione da due a cinque anni, mentre per colei che se lo fosse indotta da sola, da uno a quattro anni. Eppure, all’epoca, nonostante le difficoltà, nonostante il dolore, nonostante i rischi anche penali e nonostante la paura, si abortiva lo stesso.
Questo può sembrare uno scenario molto lontano nel tempo e nello spazio, che descrive il vissuto e le esperienze di altre generazioni e di altre epoche, tuttavia il recente caso dell'annullamento da parte della Corte suprema degli Stati Uniti della sentenza Roe vs. Wade e la conseguente abolizione del diritto costituzionale di interrompere la gravidanza hanno mostrato come il rischio di perdere i diritti acquisiti sia reale e concreto anche là dove non ce lo si aspetta. Non solo, ma vi sono Paesi anche al di qua dell’oceano e spazialmente vicini a noi, come il Liechtenstein e Malta, dove l’aborto è tuttora vietato, e altri, come la Polonia, dove l’aborto è sottoposto a una legge talmente restrittiva che, di fatto, impedisce alla maggioranza delle donne di abortire, con l’aggravante della situazione attuale, in cui molte donne ucraine, in fuga dalla guerra e reduci da stupri, si trovano a non poter abortire.
L'annullamento della sentenza Roe vs. Wade ha mostrato come il rischio di perdere i diritti acquisiti sia reale e concreto anche là dove non ce lo si aspetta
Nel nostro Paese, invece, da più di quarant’anni la legge permette di abortire e si può dire che il bilancio di attuazione di questo dispositivo legislativo sia complessivamente positivo, con un trend di Ivg in costante diminuzione: se nel 1982 il tasso di abortività era di 17,2 ogni 1.000 donne di 15-49 anni, nel 2020 è il 5,4. Inoltre, il dato italiano è tra i valori più bassi a livello internazionale.
L’implementazione della legge non è però esente da criticità, come si racconta ne I suoi primi quarant’anni. L’aborto ai tempi della 194 (a cura di Rossella Ghigi, Neodemos, 2018). Prima fra tutte, vi è la questione dell’obiezione di coscienza. I contenuti della 194 sono stati infatti l’esito di un compromesso tra istanze e sensibilità molto diverse, e ciò è testimoniato dall’inserimento nel testo della legge di alcuni passaggi, tra cui appunto la possibilità, espressa nell’articolo 9, per il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie di rifiutarsi di praticare o partecipare agli interventi di Ivg per obiezione di coscienza. Dato il quadro storico, politico e sociale in cui la norma si inseriva, questa era una previsione di legge che di fatto l’ha resa più tollerabile dalle diverse posizioni che animavano la società e ha consentito al personale sanitario di poter continuare a lavorare nell’ambito della sanità pubblica senza dover operare contro le proprie convinzioni personali e religiose.
Il Sistema di sorveglianza Iss ogni anno si occupa di rilevare i dati regionali aggregati riguardanti questo fenomeno: la relazione del ministro della Salute pubblicata a giugno del 2022 mostra come nel 2020, in Italia, vi sia ancora una quota elevata di obiezione di coscienza. Sebbene i valori siano in leggera diminuzione rispetto alla rilevazione precedente, nel 2020 ha presentato obiezione di coscienza più della metà (il 64,6%) dei ginecologi, il 44,6% degli anestesisti e il 36,2% del personale non medico. Un dato nient’affatto in calo con le nuove generazioni di medici, ma piuttosto altalenante: tra i ginecologi, si è passati dal 58,7% del 2005 fino al picco del 70,9% nel 2016, come ricorda l’Istat qui.
Inoltre, i dati rilevati dal Sistema di sorveglianza evidenziano come vi sia per tutte e tre le categorie professionali considerate una significativa variabilità per area geografica e per regione con, per esempio, percentuali di ginecologi obiettori superiori all’80% in Abruzzo (83,8%), Molise (82,8%) e Sicilia (81,6%) – mentre tali percentuali sono significativamente inferiori ad esempio nella provincia autonoma di Trento (35,4%) e in Valle D’Aosta (25%). L’alta variabilità regionale è causa di asimmetrie nella implementazione del servizio, e ciò costituisce non pochi disagi per chi deve spostarsi da una regione all’altra per poter abortire in tempo, talvolta su distanze non trascurabili.
Bisogna inoltre considerare che, in Italia, le Ivg possono essere eseguite solo da medici specialisti in ostetricia e ginecologia, mentre in altri Paesi possono essere effettuate anche dai medici di famiglia e, in determinate circostanze, anche dal personale non medico, e ciò significa che nel nostro Paese il numero di personale sanitario che può eseguire le Ivg risulta decisamente più limitato e, dunque, l’impatto dell’obiezione dei ginecologi si fa particolarmente significativo.
Così come altre associazioni che tutelano il diritto all’aborto, anche Laiga 194 denuncia il fatto che un’elevata percentuale di obiettori si traduce non solo in un carico di lavoro maggiorato per ginecologi non obiettori, ma anche e soprattutto in un servizio meno efficace per le donne, e in maggiori rischi per la loro salute e per il loro benessere. I problemi nell’accesso all’Ivg costringono non di rado le donne a viaggiare all’estero, dove i limiti gestazionali sono più ampi; mentre chi non se lo può permettere si vede costretta a vivere le conseguenze di una gravidanza indesiderata, con possibili ricadute sulla propria salute e sulla propria traiettoria di vita.
I problemi nell’accesso all’Ivg costringono non di rado le donne a viaggiare all’estero. Chi non se lo può permettere è invece costretta a vivere le conseguenze di una gravidanza indesiderata
Per limitare i possibili effetti negativi dell’obiezione di coscienza sull’accesso delle donne all’Ivg, la legge 194 esplicita chiaramente che gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti ad assicurare l’erogazione dei servizi abortivi, e che la Regione ne assicura l’attuazione. È infatti sempre la relazione del ministro della Salute a segnalare che vi sono strutture che, nonostante non avessero in organico ginecologi non obiettori, hanno dichiarato di aver effettuato Ivg grazie a una organizzazione a livello regionale che ha consentito di garantire il servizio tramite una mobilità del personale non obiettore proveniente da altre strutture. Si tratta quindi di un fenomeno complesso, che va analizzato tenendo conto delle sue varie dimensioni: da quella istituzionale a quella organizzativa, oltre, naturalmente, a quella politica.
In un contesto come l'attuale, dove vi sono politici italiani che dichiarano pubblicamente di auspicare l’abolizione del diritto di aborto anche in Italia, occorre restare vigili e ricordare che gli ostacoli che riducono o impediscono l’accesso all’aborto non fermano gli aborti, ma fermano gli aborti sicuri, e richiamano scenari tragici come quelli evocati dalle parole di Flamigni. La legge 194 rimane un'acquisizione irrinunciabile del nostro diritto, da non dare però per scontata. Occorre continuare a promuovere la tutela del libero esercizio dei diritti sessuali e riproduttivi delle donne, cercando di eliminare quegli ostacoli che ancora si frappongono alla loro autodeterminazione, e salvaguardare la loro salute, il loro benessere e, dunque, il loro futuro. Per non dover vedere di nuovo quelle donne nella notte in cerca di aiuto.
Riproduzione riservata