L’ultimo degli ivoriani. Il presidente uscente della Costa d’Avorio Laurent Gbagbo si è dunque arreso e l’11 aprile è stato posto in stato di arresto dalle forze di Alassane Dramane Ouattara, il vincitore ufficiale del secondo turno delle elezioni presidenziali, tenutosi il 28 novembre scorso. Gbagbo, che era in testa al primo turno, non accettando di riconoscere la vittoria del rivale, aveva aperto nuovamente un conflitto, che con la firma dell’Accordo Politico di Ouagadougou (APO) del 2007 si sperava di poter risolvere attraverso il passaggio elettorale. Mentre il ruolo giocato dalla comunità internazionale, e soprattutto dalla Francia, nell’arresto di Gbagbo non è ancora chiaro, per le strade di Abidjan la notizia ha sollevato sentimenti e reazioni contrastanti.
Il conflitto scoppiato in Costa d’Avorio negli ultimi dieci anni circa è infatti molto più complesso della semplice contrapposizione tra i due leader, e il futuro è incerto. Che fine faranno i militari dell’esercito e le formazioni paramilitari che in questi anni hanno sostenuto Gbagbo e segnato le pagine più crude della contesa? Quale futuro per i “giovani patrioti” le cui rivendicazioni sono state cavalcate dalla retorica nazionalista e “anti-imperialista” di Gbagbo? E Ouattara come potrà, nell’attuale situazione, sganciarsi dal suo legame con gli ex ribelli delle Forces Nouvelles (FN) e con la “causa del Nord” e presentarsi come un leader nazionale? In Costa d’Avorio, Paese che un tempo rappresentava un modello di successo economico e stabilità politica per tutta l’Africa sub-sahariana, da molti anni è un intero sistema sociale e politico a essere entrato in crisi, non solo un equilibrio istituzionale.
Per quasi quarant’anni il primo presidente Houphouët-Boigny ha promosso politiche a favore dei flussi migratori verso le piantagioni delle aree costiere del Sud, una delle principali caratteristiche delle strutture economiche e sociali del Paese fin dall’epoca coloniale. Ma il sistema ha retto finché hanno tenuto le modalità locali attraverso le quali gli immigrati venivano integrati nelle società di insediamento e contemporaneamente entravano in possesso di appezzamenti di terreno. Quando queste sono entrate in crisi, la situazione si è riverberata a livello nazionale in una rivitalizzazione dell’autoctonia come forma di appartenenza nazionale. L’“ivoirité” come ideologia di Stato è promossa dal presidente Bédié negli anni Novanta, quando, con la democratizzazione pluripartitica, l’autoctonia diventa il principale cavallo di battaglia anche di Gbagbo, un tempo principale oppositore di Houphouët-Boigny e a capo di un partito dagli accenti socialisti.
Ouattara, ex primo ministro di Bédié ed ex funzionario del Fondo Monetario Internazionale, incarnava la perfetta figura contro cui la campagna nazionalista e xenofoba di Gbagbo si poteva scagliare: visto come candidato “naturale” degli immigrati dal Nord per via della sua provenienza, aveva inoltre svolto la sua carriera professionale per la maggior parte all’estero. Nel 1995 e nel 2000 Ouattara viene escluso dalla candidatura alle elezioni presidenziali in quanto sospettato di essere di origine burkinabé e quindi non “veramente ivoriano”. Intanto, nel 1999 un colpo di Stato sancisce l’apertura di una contesa politica sempre più conflittuale, che raggiunge il punto di svolta nel 2002, quando gruppi di ribelli iniziano un’offensiva contro Gbagbo, presidente dopo la vittoria alle elezioni del 2000. La ribellione, che si coagula nella formazione delle FN, porta in breve tempo a una divisione militare del Paese, che corrisponde a quella ideologica tra gli “autoctoni” del Sud e gli “stranieri” del Grand Nord.
Gli anni della presidenza di Gbagbo, dunque, si caratterizzano anche per l’approfondirsi degli attacchi xenofobi contro gli “immigrati del Nord”, in particolare da parte dei giovani vicini al Presidente, proprio quei giovani che ora ci si chiede che fine faranno e che rappresentano un forte punto interrogativo, tra i tanti, sul futuro delle democrazia ivoriana.
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