È passato un mese da quando papa Francesco si è recato in Canada per dare seguito a una delle richieste del Rapporto, pubblicato nel 2015, della Commissione per la verità e la riconciliazione del Canada, istituita nel 2008: «Chiediamo al papa di presentare delle scuse, a nome della Chiesa cattolica romana, ai sopravvissuti, alle loro famiglie e alle comunità coinvolte per gli abusi spirituali, culturali, emotivi, fisici e sessuali che i bambini delle Prime Nazioni, degli Inuit e dei Métis hanno subito nelle scuole residenziali gestite dalla Chiesa cattolica. Chiediamo che queste scuse siano simili a quelle fatte nel 2010 agli irlandesi che hanno subito abusi e che vengano presentate dal papa in Canada entro un anno dalla pubblicazione del presente rapporto».
Se altre Chiese cristiane aderenti alla Convenzione di regolamento sulle scuole residenziali indiane avevano già presentato delle scuse (per esempio quella anglicana), la Chiesa cattolica nella sua interezza, nonostante numerose iniziative, non aveva finora formulato alcunché di simile. Sostenendo che la comunità cattolica in Canada non avesse una struttura centrale e che ogni vescovo diocesano avesse piena autonomia nella sua diocesi – che è la struttura organizzativa fondamentale della Chiesa cattolica – la Conferenza episcopale aveva affermato che non c’era nessuno in Canada che potesse chiedere scusa a nome delle molte diocesi o ordini religiosi che compongono la Chiesa cattolica canadese (54 enti cattolici, rappresentanti 17 diocesi e 37 istituzioni religiose, sono stati coinvolti nella gestione e nella conduzione delle scuole residenziali, che erano sotto la giurisdizione del governo canadese). Inoltre la condanna da parte di Benedetto XVI degli atti di violenza commessi in Irlanda mostrava una duplicità di trattamento che scandalizzava molti e poneva la questione del perché le vittime delle Prime Nazioni non ne avessero ugualmente diritto.
Di qui l’ufficiale richiesta di scuse del 2015. Tra il 2016 e il 2022 la pressione non ha smesso di crescere, accompagnata da frustrazione e, a volte, rabbia. Il sospetto cresceva: la Chiesa cattolica era pronta a riconoscere i propri torti e a scusarsi? Tutti gli sguardi erano rivolti a Roma, data la considerazione della Chiesa cattolica quale organizzazione centralizzata sotto l’autorità assoluta del papa. Il processo accelera nel 2021, con le scuse formali dei vescovi, a settembre, e la previsione di un incontro a Roma tra il papa e alcune delegazioni delle Prime Nazioni, dei Métis e degli Inuit.
Bisogna dire qualcosa delle scuole residenziali aborigene se si vuol comprendere il torto subito dai bambini che le frequentavano e mettere in prospettiva la richiesta di perdono da parte del papa. In breve, nonostante qualche scuola si ritrovi anche prima della Confederazione canadese (1867), la Legge sul Nord America britannico che ha dato vita al Canada e che affidava allo Stato federale la cura dell’educazione dei giovani aborigeni e il loro assorbimento nella società canadese apre una nuova pagina di storia coloniale. L’espansione del Canada verso Ovest ha generato la medesima situazione, perché ha implicato la conquista di nuovi territori occupati dai Métis e dagli aborigeni (il Manitoba e i territori del Nord Ovest si uniranno alla Confederazione rispettivamente nel 1870 e 1871).
È in questo contesto che si osserva un importante sviluppo delle scuole residenziali a partire dal 1880. Questo sistema, per quanto uno storico come Roberto Perin, docente emerito della York University, tenda a escludere il coinvolgimento diretto del Vaticano negli accordi tra governo canadese e ordini religiosi per la gestione delle scuole residenziali, ha potuto contare sulla complicità della Chiesa cattolica in Canada. Inoltre, prelevando i bambini dalle loro famiglie e dai loro contesti abitativi per porli in collegio, questo stesso sistema ha dato luogo a violenze fisiche e ha rappresentato un ambiente propizio alla diffusione di epidemie. Il benessere dei bambini non era più garantito: si stima che almeno 6.000 dei 150.000 bambini che hanno frequentato tali strutture non sono mai tornati alle loro famiglie. E, peggio ancora, in molti sono stati vittime di abusi sessuali.
Francesco ha avviato un "pellegrinaggio penitenziale", dopo aver accolto a Roma, alla fine del mese di marzo e all’inizio di aprile, le delegazioni delle Prime Nazioni, dei Métis e degli Inuit
È in questo quadro che papa Francesco ha avviato ciò che egli stesso ha definito, con una categoria medievale, un «pellegrinaggio penitenziale», dopo aver accolto a Roma, alla fine del mese di marzo e all’inizio di aprile, le delegazioni delle Prime Nazioni, dei Métis e degli Inuit. Le richieste di perdono del papa sono state accolte in modi diversi. I media hanno spesso fatto eco a chi si rammaricava che non fossero state pronunciate le parole attese: al papa era stato chiesto di scusarsi per quanto la «Chiesa cattolica» aveva fatto e non semplicemente per il male commesso da alcuni o più dei suoi membri o per le colpe commesse da comunità religiose o varie istituzioni cattoliche locali.
Il rammarico di altri ha riguardato il fatto che il papa non abbia abrogato, con un atto giuridico formale, le bolle dei suoi predecessori che, nel XV secolo, hanno posto le condizioni per la nascita della «dottrina dello scoperta» e del concetto di terra nullius, con cui si è giustificata l’espropriazione delle terre occupate dagli aborigeni (per il principio secondo cui un sovrano cristiano che scopre terre non cristiane può reclamarle come sue). Si sarebbe voluto anche che egli declinasse i diversi tipi di abusi – spirituale, culturale, emotivo, fisico e sessuale, piuttosto che limitarsi a nominarne alcuni o parlarne in generale.
La visita ha sofferto di un grave malinteso. Si attendeva che il papa si scusasse, ma è venuto a chiedere perdono e il suo approccio si inscriveva in un processo di riconciliazione
La visita ha sofferto di un grave malinteso. Si attendeva che il papa si scusasse, ma è venuto a chiedere perdono e il suo approccio si inscriveva in un processo di riconciliazione. Sono due prospettive distinte, anche se non opposte. E proprio a tale processo di riconciliazione e guarigione ha alluso la governatrice generale del Canada, Mary Simon, autoctona (Inuk) lei stessa. Poca eco ha avuto poi la difficoltà più grande, quella di immaginare il futuro, di pensare al mondo e alla società che intendiamo costruire. Allo stesso modo, le parole del papa sulla colonizzazione ideologica attuale e sui sistemi che anche oggi distruggono le culture non sono emerse, nonostante si tratti di una questione capitale, specialmente per le comunità autoctone, che riguarda l’imposizione di modelli culturali dominanti, i quali non appartengono solo al passato. Un aspetto da non sottovalutare, quindi, non poteva non essere la cura delle liturgie, inspiegabilmente poco acculturate in questo viaggio – in genere danno molto più spazio alle lingue e ai simboli delle popolazioni indigene –, in particolare l’eucaristia a Edmonton.
Non si è trattato di una visita priva di rischi. La difficoltà principale riguardava il fatto che, invitando il papa, si sarebbe privilegiato un processo di riconciliazione dall’alto. Infatti, non basta che il papa chieda perdono e che i capi indigeni o il Primo ministro si mostrino soddisfatti. La riconciliazione deve avvenire anche dal basso, mediante l’incontro, la conoscenza e l’apprezzamento delle tradizioni e della cultura dei popoli indigeni. La separazione imposta dalla Legge sugli indiani (1876) – legge mai abrogata – non ha favorito l’incontro tra gli autoctoni e le popolazioni stabilitesi in Canada. Essa ha piuttosto generato ignoranza, relegando gli indigeni a stranieri – stranieri oggetto di pregiudizi, paura, incomprensione e disprezzo. In questo senso il papa non ha parlato soltanto agli autoctoni.
Il viaggio del papa non era privo di rischi anche per la sua facile strumentalizzazione. E sarà stato solo un alibi anziché un forte simbolo se ad esso non seguiranno passi ulteriori. Nel suo comunicato, la Conferenza dei vescovi cattolici del Canada si è impegnata a dare un seguito in occasione della sua prossima assemblea plenaria, in autunno. La questione dell’abrogazione formale della dottrina della scoperta mediante un atto papale dovrebbe essere ugualmente affrontata (come si è fatto, per esempio, con la rimozione della scomunica del 1054 contro Michele Cerulario).
Qualcuno, infine, ha anche inteso confrontare questa visita con quella di papa Giovanni Paolo II nel 1984. Si è voluto così misurare, con il numero di persone radunatesi nei luoghi toccati dal papa, il declino della Chiesa cattolica in Canada nel corso degli ultimi quarant’anni. Ma questa questione è meno interessante di quanto sembri. Quella di Giovanni Paolo II era una visita di un papa ancora in forma e un’occasione di festa. Essa intendeva segnare l’immaginario collettivo e mettere in scena il dinamismo della Chiesa cattolica e affermare la sua presenza. Quella di Francesco, dal canto suo, ha portato con sé una nota di gravità.
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