La nuova legge sulla cittadinanza, appena licenziata dalla Camera e prossima a essere discussa al Senato, colma un ritardo ventennale nella nostra normativa, rendendo assai più agevole l’ottenimento della cittadinanza italiana per i figli dell’immigrazione.
Si tratta di provvedimento di civiltà, da salutare con grande favore, per le ragioni ben spiegate da Giovanna Zincone su «La Stampa» del 14 ottobre. Il cuore del provvedimento è rappresentato dal ruolo della scuola, a cui viene riconosciuto il compito fondamentale di formare i nuovi cittadini: per la prima volta nel nostro ordinamento, la frequenza scolastica diventa un criterio per ottenere la cittadinanza. È quel che si chiama «ius culturae» o «ius scholae», la cui applicazione era stata proposta dalla Fondazione Agnelli su questo giornale per la prima volta nel febbraio 2012: l’idea è che la condivisione della cultura, della lingua, dei saperi ritenuti essenziali – e non semplicemente lo scorrere del tempo di residenza – sia il fondamento per acquisire l’insieme dei diritti che uno Stato riconosce ai propri cittadini, e dei doveri che ne seguono.
In attesa dell’approvazione definitiva della legge, possiamo cominciare a valutarne l’impatto numerico. Oggi, i minori stranieri in Italia sono 1.080.000, di cui un po’ meno di 800.000 frequentano le scuole di ogni ordine e grado. Il provvedimento della Camera prevede sostanzialmente tre diversi canali per diventare cittadini italiani.
Il primo è di essere nati nel nostro Paese e che almeno uno dei genitori disponga di un titolo di soggiorno di lunga durata (non quindi il semplice permesso di soggiorno rinnovabile). Tra gli stranieri residenti la quota in possesso di titoli di lungo periodo è del 60% circa: dei 750.000 minorenni stranieri nati in Italia, 450.000 potrebbero quindi diventare italiani molto presto. A regime, sulla base di questo criterio avremo ogni anno circa 45-50.000 nuovi italiani: in tutto e per tutto italiani, come sappiamo per averli visti crescere insieme ai nostri figli e nipoti.
Fin qui, la frequenza scolastica non è decisiva. Invece, per i nati in Italia i cui genitori non abbiano un titolo di soggiorno permanente o per coloro che non sono nati qui ma sono arrivati prima dei 12 anni, la cittadinanza discende dalla frequenza di 5 anni di scuola (o di formazione professionale). Nel caso di frequenza alla scuola primaria, è necessaria anche la conclusione positiva, cioè la promozione alla prima media. Ogni anno circa 30.000 studenti, fra quelli che si trovano in questa condizione, completano il percorso elementare con successo. Magari qualcuno dovrà aspettare qualche tempo in più oltre gli 11 anni, se ci sono stati un ritardo nell’iscrizione o una bocciatura, entrambi fenomeni abbastanza frequenti per gli stranieri. In ogni caso, l’approdo alla cittadinanza avverrà ancora sui banchi di scuola e non più alla maggiore età.
Infine, per chi è arrivato tra i 12 anni e i 18 anni, i requisiti per la cittadinanza sono due: 6 anni di residenza regolare e frequenza di un ciclo scolastico con il conseguimento del titolo conclusivo. In questo caso, i dati esatti sono difficili da reperire, ma sappiamo che si tratta di cifre dell’ordine di poche migliaia all’anno: infatti, uno su due fra i giovani stranieri che arrivano qui nell’adolescenza abbandona la scuola (ma non necessariamente la formazione professionale) prima del conseguimento del titolo.
Da questi numeri si comprende che si tratta di una legge che guarda soprattutto al futuro, pensata per i bambini stranieri nati nel nostro Paese (ormai in netta maggioranza) oppure arrivati in tenera età. E che, giustamente, affida alla scuola, che è la base su cui il futuro si costruisce, la responsabilità di farne cittadini pienamente integrati.
[Questo articolo di Andrea Gavosto è uscito su «La Stampa» del 15 ottobre 2015]
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