La discussione sul tema è in corso in tutte le democrazie, con Inghilterra e Francia osservate speciali, Italia alla prova di un inedito esperimento populista. Serve riflettere, con una giusta presa di distanza.
«Elite» e «gente» sono le categorie usate, ad esempio, da Alessandro Baricco nel suo articolo (“la Repubblica”, 11 gennaio) che vuole discuterne il ruolo e prospettare una via d’uscita dall’attuale impasse. Ma ritengo in modo sbagliato. Elite non sono il medico, l’insegnante, l’imprenditore, il dirigente, il sindaco, l’avvocato ecc. dell’elenco di Baricco. Sono una categoria politica, la classe dirigente di qualsiasi società e in particolare di una società capitalistica complessa. Come si formano e come circolano le élite è questione alla base della democrazia, di ieri e di oggi. Il potere privato delle classi capitaliste, l’élite economica che se potesse si prenderebbe tutto viene bilanciato e regolato da rappresentanti politici dell’interesse pubblico: questo è nei padri fondatori della democrazia americana, come in Max Weber e John M. Keynes.
“Gente” non significa, nell’analisi della società, assolutamente nulla: non esiste. La società è fatta di classi, gruppi e ceti (Weber) in permanente movimento e riarticolazione. La società liquida di Bauman-certo più sofisticata della categoria gente, al punto da essere usata ormai da molti – anch’essa non esiste. La società inglese oggi – per fare un esempio – è composta di 7 gruppi sociali: élite economica, classe media stabilizzata, classe media tecnica, nuovi lavoratori affluenti, classe operaia tradizionale, lavoratori emergenti dei servizi, precariato. Sono le loro variabili alleanze, le loro rappresentazioni e rappresentanze a disegnare la società e orientarne le scelte. Altra cosa è poi analizzare la «massa», una categoria che da Elais Canetti è stata assunta a fondamento del rapporto con il «potere».
Ci sono novità, ma non sono quelle evocate da Baricco. Il capitalismo studiato dai classici è stato superato da fenomeni imprevisti forse nella dimensione, non nella traiettoria: la finanziarizzazione, globalizzazione e tecnicizzazione non hanno eguali con il secolo scorso. Eppure i classici avevano fissato con largo anticipo i fenomeni culturali che attualmente si dispiegano, dall’individualismo guidato dal consumo di massa al dominio della tecnica razionale ma priva di direzione. Avevano visto la forma esteriore di un punto fisso centrale, il capitalismo come nuova “religione” della società. I cui credenti erano non solo la borghesia imprenditoriale ma un’estesa classe media: che la maggioranza della classe operaia si affidasse a una religione alternativa era il rischio da evitare.
Oggi questa “religione” ha creato nuove opportunità e nuovi rischi, di cui i fenomeni politici e sociali evocati da Baricco sono una conseguenza. Le opportunità riguardano un capitalismo finanziario e tecnologico globalizzato, i rischi colpiscono una classe media, operaia e precaria tutte coinvolte nello spiazzamento in corso.
Mente finanziaria e corpo tecnologico del capitalismo sono del resto intrecciati. La finanza mondiale si sviluppa in ambienti dominati dalla tecnologia dell’informazione istantanea, che rende possibili le transazioni nei mercati ufficiali e paralleli in cui circola il capitale finanziario globale entro sempre nuovi prodotti e veicoli il cui valore supera di decine di volte il Pil mondiale. La tecnologia a sua volta dipende dall’immensa disponibilità finanziaria di capitali di rischio.
Nonostante la differenza antropologica tra gli ex ragazzini della Silicon Valley (che Baricco apprezza) e gli speculatori finanziari di Wall Street un tratto culturale li unifica: è la “religione” del capitalismo, la credenza in una religione secolare planetaria che pone il proprio traguardo nella nostra disponibilità immediata, e il fine ultimo nella nostra pronta realizzazione.
Naturalmente il rischio, o persino la società del rischio fa parte di quest’ orizzonte. Il rischio viene inutilmente calcolato o ridotto dalla teoria delle aspettative razionali, perché in gran parte si basa su errori incalcolabili, aspettative e scommesse su futuri sconosciuti. Il rischio si situa al centro della sfera individuale e relazionale della persona. Oggi le classi media, operaia, precaria non hanno protezioni nei confronti del rischio come era stato negli anni dal 1930 al 1980 del Novecento.
Tutto è iniziato con la creazione di homo oeconomicus da parte del pensiero Occidentale. Un tipo razionale, calcolatore e universale, all’inizio mosso dalle virtù del mercato e poi sempre più autoriferito. In campo finanziario è chi di fronte alla perenne ricerca di liquidità da parte di tutti, la volge a proprio vantaggio facendola convergere sui propri prodotti. È chi specula sull’incertezza anche a costo della crisi, anzi proprio in ragione di essa. Il resto della società subisce, sta a guardare o non è messa in grado di difendersi.
Con queste chiavi di lettura occorre rileggere il pericoloso scenario attuale di crescenti disparità di reddito e di potere, assai diverso dalla democrazia di massa del Novecento basata su una crescente convergenza dei redditi delle persone e delle regioni negli Stati Uniti, in Europa, in Giappone. Le diseguaglianze sociali sono in aumento sia in Occidente sia in Oriente: la società si sta polarizzando senza che si intraveda un possibile punto di equilibrio. Questa polarizzazione è il frutto del predominio del capitalismo finanziario e tecnologico che distribuisce le chance di ricchezza in modo fortemente diseguale. Ma il capitalismo aveva promesso eguaglianza (homo aequalis), o almeno eguali chance per tutti nella gara competitiva.
Secondo Piketty quando il tasso di rendimento del capitale supera regolarmente il tasso di crescita della produzione e del reddito – come fino al XIX secolo e di nuovo nel XXI – il capitalismo produce automaticamente disuguaglianze insostenibili. I capitalisti, i detentori di rendite finanziarie guadagnano troppo e il loro capitale non è tassato in modo sufficiente perché la crescita sia sostenibile dal resto della società.
Ne esce gravemente ridimensionata la capacità regolativa delle istituzioni politiche sui mercati, in particolare finanziari. La democrazia potrebbe riprendere il controllo del capitalismo solo se le nazioni si integrassero a scala mondiale, per ora almeno a scala europea. La prospettiva dell’Europa è per questo importantissima e auspicabile. È un auspicio alla democrazia economica, e un invito a rimettere al centro dell’ economia individui più consapevoli. Eppure i segni di crisi dei modelli di Welfare si sono accentuati a vantaggio di estese privatizzazioni dei trattamenti che favoriscono i gruppi sociali privilegiati e invecchiati delle società Occidentali. In Oriente invece la classe media urbana si sta appena formando, una nuova classe di capitalisti sta nascendo proprio in Oriente, la culla di homo hierarchicus.
Secondo Adam Smith la cospirazione contro il pubblico e le manovre per aumentare i prezzi sono connaturate al capitalismo, e possono essere difficilmente impedite dalla legge: eppure è proprio quanto hanno fatto lo Sherman Act e la successiva legislazione americana. Occorre allora interrogarsi sulla nuova fase della diseguaglianza nella grande crisi del 2007-2008.
Perché nessuna teoria generale di tale crisi (come fu quella di Keynes nel 1936) è disponibile, né in vista? Perché la ricostruzione razionale della società cui si era giunti nel Novecento, fondata su Stati, mercati e gerarchie non è più compatibile con l’assetto dell’ attuale fase raggiunta dalla globalizzazione.
La svolta ha coinciso con la piena affermazione del capitale finanziario globalizzato prima e dopo il 2007-2008. Tra la fine di Bretton Woods (1971) e lo svilupparsi di una lex mercatoria sui mercati delle transazioni economico-finanziarie globali esiste una continuità di disegno, che non corrisponde affatto all’ affermarsi di forze spontanee. È una megamacchina quella che si afferma, con proprie leggi e architetture di dominio: la sua governance mondiale è frutto di (queste sì) élite, istituzioni e sedi, Wto, Imf e World Bank, advisor e società di consulenza globali, grandi banche d’affari e società di rating finanziario da cui dipendono i debiti sovrani dei governi.
Nella crisi del 2007-2008 una “costituzione non scritta d’emergenza” è stata creata in Europa. Vogl ha parlato di de-differenziazione tra politica ed economia nell’ attuale fase del capitalismo: nella gestione della crisi e dell’eccezione si è creata una zona di indeterminatezza tra politica ed economia cui entrambe concorrono, e la distinzione tra pubblico e privato viene disattivata – con la finanza a fare da relée.
A meno che a partire dall’Europa un’inedita alleanza tra Stati e capitalismo possa, nel nome dell’ecologia, della produzione di senso e della difesa delle classi media, operaia, precaria aprire una nuova fase. E imprimere al rapporto tra capitalismo e democrazia una nuova prospettiva di compromesso, dopo l’alleanza di capitalismo e libertà che ha segnato il passaggio di secolo neo-liberale.
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